giovedì 10 aprile 2008

Clof, clof

Cammino sulle foglie.
Clof, clof.
Alle mie spalle il rumore è diverso, diverso da quello che sento sotto i miei piedi.
E la gonna fruscia trasportando piccoli pezzi di rami morti.
Dietro il rumore è di acqua che scorre.
Cammino tra il nudo degli alberi.
Vado avanti sotto il nero delle nuvole chiuse.
Tutto è fermo.
Cammino nell'immobilità del mio passo.
Clof, clof.
Mi volto.
Vedo.
Vedo oltre i fichi.
Il cielo cola.
Si versa sulla terra. Scende diritto davanti ai miei occhi.
È una parete d'acqua.
Evapora.
È lì, oltre l'ultima pianta che a stento trattiene le sue foglie, è lì che piove.
Fittamente.
Le linee sono orizzontali.
Scendono.
Sfrusciano.
Scrosciano.
Chiudo gli occhi.
L'immagine non scompare.
È nelle mie narici.
È odore di foglie morte intrise d'acqua.
È umido, odore di umido.
Denso.
Troppo denso.
Potrei perdere l'equilibrio.
Porto indietro la testa.
Il collo si piega.
La testa pesa.
Il collo si piega.
Le labbra si schiudono.
Sete.
Tra labbra spaccate.
Sete.
Il naso fa entrare l'umido.
Dalla bocca sale il caldo del corpo.

martedì 8 aprile 2008

impotente



Quando passo davanti a un pesco di fiori non posso fare a meno di fermarmi e di guardarlo fissamente, finché sento che io stessa divento un pezzo di quel ramo.
Fin quando so che un fiore rosa sta diventando, lentamente, l'incarnato delle gote e gli stami sono la ruota delle mie iridi.
Lascio che il mio respiro diventi profumo e aspiro con il naso, con la bocca, aspiro con i pori di tutta la pelle.
E trasudo l'umore del pesco.
Resto con le dita aperte e con le braccia dure come il legno.
Non so, se quando dipingete fiori, diventate voi stessi fiori; se i vostri occhi si trasformano in petali o in gambi, se la rugiada cola sul vostro viso, non come lacrime, ma come brina vera; io vi assicuro che, se scrivo del mare, divento io stessa risacca e si trasformano i miei capelli ed i miei piedi in coralli lividi d'apnea.
Forse pensate che io stia ammattendo, ma vi assicuro che è così.
È così.
Sento che ciò che vedo mi rende diversa; sento di non poter guadare la danza della farfalla bianca senza avvertire che dalla mia schiena con forza quelle ali, da lame sottili, tagliano per uscire, squarciano tra pelle e ossa, ledono tendini e, miracolosamente, non senza dolore, spuntano.
E s'aprono.
E sbattono come ventagli indiani.
Divento il battito delle ali e da crisalide farfalla.
Il palpitare del mio petto s'amplifica con l'andare per fiori e fiori della farfalla bianca.
Io stessa m'agito a rincorrere altre farfalle capovolte, a farle rotolare spingendole nell'aria.
Ed devo scriverlo, devo appuntarlo sulla carta come un ricamo.
Fino a volere incidere con graffi d'eccitazione il foglio.
Non so se chi schiaccia formiche nere sui pentagrammi, che muteranno in musica, sente questa mia stessa smania d'inquietudine.
Non so davvero cosa mi piglia, ma se solo mi stendo sotto l'ulivo, lì, dove i rami toccano la terra e mostrano i frutti neri, quei frutti diventano le punte dei miei seni; quei frutti sono le unghie ed i polpastrelli della mia mano.
Devo accostarli alle labbra.
Farli scorrere sul bordo della bocca e strofinarli per giocarci.
Devo prendere il frutto ovale con la lingua.
Devo leccare le olive oleose.
Voglio avere il duro tra i denti, fino al punto di sentire tutto l'acre, che mi scorre dentro.
E l'uccello che salta, io davvero non so se non sono i miei occhi, che vanno in su ed in giù come animale intriso d'animo.
Io non so, se quando mi fermo ad osservare la foglia di fico che spunta dal ramo di alluminio, che non so staccarne lo sguardo, non so perché, ma mi pare il palmo della mia mano con le linee della vita, i monti, le stelle.
E le croci.
E le rughe.
Il fico che si spacca in stille di zucchero lucente è l'inguine schiuso al sole.
Ne sento l'odore dolce del tutto simile al mio.
La grossa infiorescenza profuma.
È un richiamo irresistibile per le narici. Sa di frutta matura: è odore delle foglie morbide e pelose, è essenza di lattice; ha sentore dei rami secchi bruciati, del frutto essiccato, di mandarino e lauro e noci.
Avverto la nota liquorosa.
Ogni cosa attira i miei occhi ed in ogni cosa io mi muto.
E dei gelsi neri ho il succo scarlatto a macchiare di sangue e tatuaggio la pelle.
E le punte intrise delle dita sono coccinelle che prendono il volo.
Dei miei capelli è il rosso delle rose e le spine, si, le spine... le spine sono il groviglio delle mie vene irrorate di linfa.
E le carrube pendule?
Ah, quelle brune carrube d'ebano sono certo le dita che arpeggiano le corde dell'aria.
Ne sento il tintinnare.
E non sono forse conchiglie le mie orecchie?
Non vi paiono davvero simili? Direi gemelle fatte per udire il suono del mare e del vento.
Sono nacchere di gitane, uguali e complementari.
E se questo mio discorso può apparvi strano, io vi assicuro che così in me riecheggia ogni spicchio di natura.
Come una spugna gocciolante intrisa di cielo, la felicità mi entra dalla bocca fino a quando l'eccitazione mi toglie il fiato e il pianto mi cola dagli occhi.