Vengono da lontano.
Bianco e nero. Eco. Si stendono le parole sulla carta, che squittisce sotto le mani.
La vita porta via i colori…il bianco e il nero restano e assordano in silenzio.
Lei racconta. Siamo quasi al buio e restiamo sedute per terra, avverto il freddo sotto il culo nei calzoni. Ascolto. Sono state le sue prime parole a riaprire quel giornale che ora svolazza sopra le teste. Dentro la mia, lo sento sbattere come si fa per spaventare i cuccioli di cane che hanno pisciato ovunque.
“A Napoli nell’’80, c’era la neve.”
Se solo Laura sapesse cosa sto pensando.
“Avevo cinque anni e non avevo mai visto la neve!”
Un brivido mi scuote la schiena e la pelle s’inturgidisce sul mio petto.
Ma Laura non lo può sapere…aveva cinque anni e c’era la neve.
La neve copre i colori.
Laura cambia il tono della voce: ora ha davvero cinque anni.
“Non avevo mai visto una cosa così bella: la neve! Era soffice e bianca era tanta e potevo giocare.”
La vedo correre sul mantello d’ovatta e ruzzolare e correre e giocare e strillare.
La vedi? Ascoltala.
“ Aveva ricoperto ogni cosa. La neve. Cominciai a fare palle di neve e poi ancora e ancora fin quando mi resi conto che si sarebbero sciolte tutte. Allora le mie mani si misero a fare una palla molto più bella delle altre: una palla rotonda come il mondo, una palla magica come le bolle di sapone. Una palla bianca e soffice, che potevo tenere per sempre. Per sempre. Per sempre.”
L’espressione del suo volto cambia: si allarga un sorriso obliquo e gli occhi sembrano spilli.
“ Mi sembrò la scoperta più grande del mondo e mi trascinai una sedia fino al frigorifero e mi arrampicai per aprire il freezer: la mia palla era al sicuro adesso.”
Sento la porta del freezer che sbatte…e bum!
Tra le pause del suo parlare riascolto il metallo della voce che mi feriva dalla televisione, rivedo la neve…Pertini, le cosce dei morti che sbucano dalle coperte e non so se le immagini fossero in bianco e nero o a colori: c’era la neve. Sopra ogni cosa. Sopra i container e sulle baracche e sulle case spaccate. E c’era una tenda di una cucina che rimaneva appesa al balcone, ma non c’era più la cucina e non c’era più la casa e non c’era…c’era la neve.
I fiori sopra quel balcone sono appassiti e bruciati dal gelo: è la foto, la foto senza i colori dei fiori, la foto in bianco e nero sbiadita tra il piombo del giornale e le mie dita macchiate di nero, le mie dita bianche.
Laura continua il suo racconto. Alle sue spalle c’è una lampada rotonda come una palla di neve. La luce viene dal basso ed è calda, pare una stufa alogena.
Vorrei allungare le mie braccia per sentire il caldo sul nudo delle mani, ma resto ferma nelle sue parole.
Le dice di un fiato. Poi resta in silenzio. Risento la neve.
Il silenzio della neve è diverso…
La luce che vedo è quella di un neon. Un uomo apre il freezer. Plok! Prende la palla di neve e la fa scongelare sul lavello d’acciaio.
Gocciola.
Davanti agli occhi di Laura, la palla diventa acqua, diventa nulla.
“Ne ho sofferto tanto.”
Laura termina il suo racconto: “Quell’uomo era mio padre!”
“Papà!...la neve non c’è più…papà…”
Gocciola.
Me la ricordo quella neve: era sporca di sangue, era la tomba dei morti sepolti, dei morti sepolti sotto la neve, sotto le macerie delle case.
Di quei morti che appestavano le strade squassate dal terremoto.
La neve era sporca…
La neve ha ucciso uomini e uomini e donne e corpi mutilati e informi e bambini nelle culle e nelle braccia prive di vita delle mamme e dei papà, la neve ne ha uccisi più del terremoto.
Vorrei poterlo dire a Laura e forse la consolerebbe un po’…ma non si possono asciugare le lacrime quando sono di neve.