domenica 28 ottobre 2007

La neve.


Laura parla. In un lampo davanti ai miei occhi, si apre il grigio di una pagina di giornale. Il fragore del foglio stropicciato si struscia, sembra vento: quella foto che non vuole uscire dai miei occhi ed il rincorrersi muto delle parole stampigliate sono un’eco dentro di me.

Vengono da lontano.

Bianco e nero. Eco. Si stendono le parole sulla carta, che squittisce sotto le mani.

La vita porta via i colori…il bianco e il nero restano e assordano in silenzio.

Lei racconta. Siamo quasi al buio e restiamo sedute per terra, avverto il freddo sotto il culo nei calzoni. Ascolto. Sono state le sue prime parole a riaprire quel giornale che ora svolazza sopra le teste. Dentro la mia, lo sento sbattere come si fa per spaventare i cuccioli di cane che hanno pisciato ovunque.

“A Napoli nell’’80, c’era la neve.”

Se solo Laura sapesse cosa sto pensando.

“Avevo cinque anni e non avevo mai visto la neve!”

Un brivido mi scuote la schiena e la pelle s’inturgidisce sul mio petto.

Ma Laura non lo può sapere…aveva cinque anni e c’era la neve.

La neve copre i colori.

Laura cambia il tono della voce: ora ha davvero cinque anni.

“Non avevo mai visto una cosa così bella: la neve! Era soffice e bianca era tanta e potevo giocare.”

La vedo correre sul mantello d’ovatta e ruzzolare e correre e giocare e strillare.

La vedi? Ascoltala.

Aveva ricoperto ogni cosa. La neve. Cominciai a fare palle di neve e poi ancora e ancora fin quando mi resi conto che si sarebbero sciolte tutte. Allora le mie mani si misero a fare una palla molto più bella delle altre: una palla rotonda come il mondo, una palla magica come le bolle di sapone. Una palla bianca e soffice, che potevo tenere per sempre. Per sempre. Per sempre.”

L’espressione del suo volto cambia: si allarga un sorriso obliquo e gli occhi sembrano spilli.

Mi sembrò la scoperta più grande del mondo e mi trascinai una sedia fino al frigorifero e mi arrampicai per aprire il freezer: la mia palla era al sicuro adesso.”

Sento la porta del freezer che sbatte…e bum!

Tra le pause del suo parlare riascolto il metallo della voce che mi feriva dalla televisione, rivedo la neve…Pertini, le cosce dei morti che sbucano dalle coperte e non so se le immagini fossero in bianco e nero o a colori: c’era la neve. Sopra ogni cosa. Sopra i container e sulle baracche e sulle case spaccate. E c’era una tenda di una cucina che rimaneva appesa al balcone, ma non c’era più la cucina e non c’era più la casa e non c’era…c’era la neve.

I fiori sopra quel balcone sono appassiti e bruciati dal gelo: è la foto, la foto senza i colori dei fiori, la foto in bianco e nero sbiadita tra il piombo del giornale e le mie dita macchiate di nero, le mie dita bianche.

Laura continua il suo racconto. Alle sue spalle c’è una lampada rotonda come una palla di neve. La luce viene dal basso ed è calda, pare una stufa alogena.

Vorrei allungare le mie braccia per sentire il caldo sul nudo delle mani, ma resto ferma nelle sue parole.

Le dice di un fiato. Poi resta in silenzio. Risento la neve.

Il silenzio della neve è diverso…

La luce che vedo è quella di un neon. Un uomo apre il freezer. Plok! Prende la palla di neve e la fa scongelare sul lavello d’acciaio.

Gocciola.

Davanti agli occhi di Laura, la palla diventa acqua, diventa nulla.

“Ne ho sofferto tanto.”

Laura termina il suo racconto: “Quell’uomo era mio padre!”

“Papà!...la neve non c’è più…papà…”

Gocciola.

Me la ricordo quella neve: era sporca di sangue, era la tomba dei morti sepolti, dei morti sepolti sotto la neve, sotto le macerie delle case.

Di quei morti che appestavano le strade squassate dal terremoto.

La neve era sporca…

La neve ha ucciso uomini e uomini e donne e corpi mutilati e informi e bambini nelle culle e nelle braccia prive di vita delle mamme e dei papà, la neve ne ha uccisi più del terremoto.

Vorrei poterlo dire a Laura e forse la consolerebbe un po’…ma non si possono asciugare le lacrime quando sono di neve.

martedì 9 ottobre 2007

un guanto


Un guanto precipitò da una mano desiderata
a toccare il pavimento del mondo in una pista affollata.
Un gentiluomo, un infedele lo seguì con lo sguardo.
E stava quasi per raggiungerlo, ma già troppo in ritardo,
e stava quasi per raggiungerlo, ma troppo in ritardo.
Era scomparsa quella mano e tutta la compagnia
e chissà se era mai esistita.
Era scomparsa quella mano e restava la nostalgia
e il guanto e la sua padrona scivolavano via
e il guanto e la sua padrona pattinavano via.
Sotto un albero senza fiori si struggeva l'amore amato.
Il guanto era a pochi passi, irraggiungibile e consumato.
In quella grande tempesta d'erba, non era estate, nè primavera.
E non sembrava nemmeno autunno però l'inverno non esisteva.
E non sembrava nemmeno autunno perchè l'inverno non esisteva.
Quando un uomo da una piccola barca con un mezzo marinaio
vide qualcosa biancheggiare.
Un uomo da una piccola barca, sporgendosi sul mare:
era il guanto che rischiava di annegare,
era il guanto che rischiava di affondare.
Fu un trionfo di conghiglie, un omaggio di fiori
per il guanto restituito alla banalità dei cuori,
ad una spiaggia senza sabbia, a una passione intravista
ad una gabbia senza chiave, ad una stanza senza vista,
ad una gabbia senza chiave, ad una vita senza vista.
E intanto milioni di rose rifluivano sul bagnasciuga.
E chissà se si può capire.
Che milioni di rose non profumano mica
se non sono i tuoi fiori a fiorire,
se i tuoi occhi non mi fanno più dormire.


Era la notte di quel brutto giorno, i guanti erano sconfinati,
come l'incubo di un assassino o i desideri dei condannati.
Dietro al guanto maggiore la luna era crescente
e piccoli guanti risalivano la corrente
e piccoli guanti risalivano la corrente.
Fino al Capo dei sogni e alla riva
del letto dell'innocente che dormiva.
Un mostro sconosciuto osservava non osservato
sopra a un tavolo il guanto incriminato
sopra al tavolo un guanto immacolato.


E il guanto fu rapito in una notte d'inchiostro
da quel mistero chiamato amore
da quell'amore che sembrava un mostro.
Inutilmente due nude mani si protesero a trattenerlo.
Il guanto era già nascosto dove nessuno può più vederlo,
il guanto era già lontano quanto nessuno può più saperlo.
Oltre la pista di pattinaggio e le passioni al dì di festa
e le onde di tutti i mari.
E il trionfo nella tempesta e le rose nella schiuma.
Il guanto era volato più alto della luna.
Il guanto era volato più leggero di una piuma.


Oltre il luogo e all'azione e al tempo consentito,
e all'amore e le sue pene.
Il guanto si era già posato in quel quadro infinito
dove Psiche e Cupido governano insieme
dove Psiche e Cupido sorridono insieme.

venerdì 5 ottobre 2007

Corbezzola



Corbezzola

La prima impressione che si ha di Corbezzola è quella di una tavolozza di un pittore. Ma una tavolozza servita per dipingere un quadro d’autunno e quindi sporca di giallo, di arancione e di verde marcio o di salvia e di ocra e di dorato e di rosso.

La prima volta ci arrivai che pioveva. La pioggia rendeva tutto diverso.

Il rosso e il giallo erano liquidi. La città appariva sospesa su una coppa d’acqua e lì si rifletteva.

Ogni cosa era il suo doppio e le case a grappoli si potevano rimirare nel bagliore della pozza mai ferma per il cadere delle gocce.

Il ticchettio rendeva tutto allegro e dalle case i più piccoli uscivano utilizzando grandi passerelle a forma di lanceolate foglie.

Tutti i bambini portavano lunghe tuniche a corolla gonfie come palloncini. Scendendo si macchiavano gli abiti vaporosi e bianchi, ricchi di balze e di pizzi.

Sugli usci delle case le mamme restavano a guardare.

Loro erano abbottonate in abiti simili a quelli dei figli, ma di una tinta crema ed avevano il viso rosso e paffuto.

Le mamme di Corbezzola erano famose nel Cilento per l’indulgenza e la dolcezza.

Le case, vi dicevo, erano appese al verde e avevano per malta quel colore rosso-arancio delle tonache dei monaci buddisti.

Gli intonaci erano grezzi e spessi, a grana doppia.

Tutta la città di Corbezzola ricopriva un territorio enorme, tanto da poterla definire la capitale del Cilento.

S’inerpicava per colline e precipitava in burroni. Arrivava giù fino al fiume Solofrone, confinava con Cicerale e Giungano, costeggiava Finocchio, Ogliastro, Eredita.

La città era sorvolata da grandi foglie, in realtà, direi che Corbezzola era immersa in un bosco.

Si arrivava percorrendo solo grandi strade in salita o risalendo il fiume.

In quel giorno di pioggia lo spettacolo era inusuale.

I bambini, dicevo, scendevano verso l’acqua e lì si rimiravano dalle barche a forma di foglie.

La cosa era che per ogni immagine di bimbo corrispondeva una cosa diversa dal sé.

Questo, certo, può apparire ben strano, ma in realtà era davvero attraente.

Le mamme dall’alto delle loro case, chi alla porta, chi affacciata alla finestra o al balcone, seguivano con attenzione l’immagine riflessa dei propri figli.

Se il bimbo era magro appariva, sì, magro, ma diverso, se era alto poteva restar alto o diventarlo ancora di più, ma comunque quella immagine ne rendeva storti il viso o gli occhi, o il sorriso.

Poi nel riflesso cambiavano le tinte di quei piccoli personaggi, i colori dei capelli o l’iride degli occhi o l’incarnato della pelle.

Una cosa era certa: ai piccoli, quella metamorfosi piaceva.

Voglio essere proprio così. Ripetevano l’un l’altro.

Mi piace questa faccia qui! Urlavano dal basso alle mamme e le mamme sorridevano.

Per guardarsi meglio si sporgevano sul pelo dell’acqua e avvicinavano il viso il più possibile.

Dall’alto le mamme chiacchieravano tra loro beatamente.

Poi, d’improvviso, la pioggia finì.

Le nubi furono spazzate via e…l’arcobaleno fece la sua comparsa.

Allora davvero a Corbezzola si fece festa!

Prima che l’acqua s’asciugasse, ogni bimbo rubò al proprio riflesso la nuova immagine di sè e dalle case le mamme scesero a dorso dell’arcobaleno, ruzzolando con le gambe all’aria e col viso ancora più rosso. Tutti gli uomini tornarono dal bosco portando selvaggina o funghi o fiori.

Ogni casa gialla diventò rossa e le rosse marroni e le marroni caddero dall’alto provocando gran tonfi e gran risate e tutti insieme si misero a pigiar quelle palle brune e ne ricavarono un vino profumato e forte e brindarono, brindarono fino alla notte.

In realtà siccome con la pioggia la città aveva nell’acqua il suo duplicato, le case che s’erano trasformate in vino, non so bene, se proprio per effetto del veder doppio che il vino dà, erano ancora lì, penzolanti nel buio con le luci accese e le porte aperte.

Gli uomini, le donne, i bambini, cantando, risalivano lenti utilizzando le grandi strade.

E le mamme ed i papà portavano a casa i bambini diversi, ma non più trasformati da come lo sono i nostri quando crescono.