giovedì 27 settembre 2007

LUNA E GNAC ITALO CALVINO


Dal romanzo "Marcovaldo" di Italo Calvino.
Voglio tenerlo sul mio blog come fiori in un vaso.


La notte durava venti secondi, e venti secondi il GNAC. Per venti secondi si vedeva il cielo azzurro variegato di nuvole nere, la falce della Luna crescente dorata, sottolineata da un impalpabile alone, e poi le stelle che più le si guardava più infittivano la loro pungente piccolezza, fino allo spolverio della Via Lattea, tutto questo scritto in fretta in fretta, ogni particolare su cui ci si fermava era qualcosa dell’insieme che si perdeva, perché i venti secondi finivano subito e cominciava il GNAC.
Il GNAC era una parte della scritta pubblicitaria SPAAK-COGNAC sul tetto di fronte, che stava venti secondi accesa e venti spenta, e quando era accesa non si vedeva nient’altro. La Luna improvvisamente sbiadiva e il cielo diventava uniformemente nero e piatto, le stelle perdevano il brillio, e i gatti e le gatte che da dieci secondi lanciavano gnaulii d’amore muovendosi languidi uno incontro all’altro lungo le grondaie e le cimase, ora, col GNAC, s’acquattavano sulle tegole a pelo ritto, nella fosforescente luce al neon.
Affacciata alla mansarda in cui abitava, la famiglia di Marcovaldo era attraversata da opposte correnti di pensieri. C’era la notte e Isolina, che ormai era una ragazza grande, si sentiva trasportata per il chiar di Luna, il cuore le si struggeva, e fino il più smorzato gracchiar di radio dai piani inferiori dello stabile le arrivava come i rintocchi di una serenata; c’era il GNAC e quella radio pareva pigliare un altro ritmo, un
ritmo jazz, e Isolina pensava ai dancing tutti luci e lei poverina lassù sola.
Pietruccio e Michelino sgranavano gli occhi nella notte e si lasciavano invadere da una calda e soffice paura d’esser circondati di foreste piene di briganti; poi, il GNAC! e scattavano coi pollici e gli indici tesi, l’uno contro l’altro: – Alto le mani! Sono Nembo Kid! – Domitilla, la madre, a ogni spegnersi della notte pensava: “Ora i ragazzi bisogna ritirarli, quest’aria può far male. E Isolina affacciata a quest’ora è una cosa che non va!” Ma tutto poi era di nuovo luminoso, elettrico, fuori come dentro, e Domitilla si sentiva come in visita in una casa di riguardo.
Fiordaligi, invece, giovinotto malinconico, vedeva ogni volta che si spegneva il GNAC apparire dentro la voluta del “gi” la finestra appena illuminata d’un abbaino, e dietro il vetro un viso di ragazza color di Luna, color di neon, color di luce nella notte, una bocca ancor quasi da bambina che appena lui le sorrideva si schiudeva impercettibilmente e già pareva aprirsi in un sorriso, quando tutt’un tratto dal buio risaettava fuori quello spietato “gi” del GNAC e il viso perdeva i contorni, si trasformava in una fiocca ombra chiara, e della bocca bambina non si sapeva più se aveva risposto al suo sorriso.In mezzo a questa tempesta di passioni, Marcovaldo cercava d’insegnare ai figlioli la posizione dei corpi celesti.
– Quello è il Gran Carro, uno due tre quattro e lì il timone, quello è il Piccolo Carro, e la Stella Polare segna il Nord.
– E quell’altra, cosa segna?
– Quella segna “ci”. Ma non c’entra con le stelle. È l’ultima lettera della parola COGNAC. Le stelle invece segnano i punti cardinali. Nord Sud Est Ovest. La Luna ha la gobba a ovest. Gobba a ponente, Luna crescente. Gobba a levante, Luna calante.
– Papà, allora il cognac è calante? La ci ha la gobba a levante!
– Non c’entra, crescente o calante: è una scritta messa lì dalla Spaak.
– E la Luna che ditta l’ha messa?
– La Luna non l’ha messa una ditta. È un satellite, e c’è sempre.
– Se c’è sempre, perché cambia di gobba?
– Sono i quarti. Se ne vede solo un pezzo.
– Anche di COGNAC se ne vede solo un pezzo.
– Perché c’è il tetto del palazzo Pierbernardi che è più alto.
– Più alto della Luna?
E così, ad ogni accendersi del GNAC, gli astri di Marcovaldo andavano a confondersi coi commerci terrestri, ed Isolina trasformava un sospiro nell’ansimare d’un mambo canticchiato, e la ragazza dell’abbaino scompariva in quell’anello abbagliante e freddo, nascondendo la sua risposta al bacio che Fiordaligi aveva finalmente avuto il coraggio di mandarle sulla punta delle dita, e Filippetto e Michelino coi pugni davanti al viso giocavano al mitragliamento aereo, – Ta- ta- ta- tà… – contro la scritta luminosa, che dopo i venti secondi si spegneva.
– Ta-ta-tà... Hai visto, papà, che l’ho spenta con una sola raffica ? – disse Filippetto, ma già, fuori della luce al neon, il suo fanatismo guerriero era svanito e gli occhi gli si riempivano di sonno.
– Magari ! – scappò detto al padre, – andasse in pezzi! Vi farei vedere il Leone, i Gemelli… – Il Leone! – Michelino fu preso d’entusiasmo. – Aspetta! – Gli era venuta un’idea. Prese la fionda, la caricò del ghiaino di cui sempre aveva in tasca una riserva, e tirò una sventagliata di sassolini con tutte le forze contro il “GNAC”.
Si sentì la gragnuola cadere sparpagliata sulle tegole del tetto di fronte, sulle lamiere della gronda, il tintinnio dei vetri d’una finestra colpita, il gong d’un sassolino picchiato giù sulla scodella d’un fanale, una voce in strada. Ma la scritta luminosa proprio sul momento del tiro s’era spenta per la fine dei suoi venti secondi.E tutti nella mansarda presero mentalmente a contare: uno due tre, dieci undici, fino a venti. Contarono diciannove, tirarono il respiro, contarono venti, contarono ventuno ventidue nel timore d’aver contato troppo in fretta, ma no, nulla, “GNAC” non si riaccendeva, restava un nero ghirigoro male decifrabile intrecciato al suo castello di sostegno come la vite alla pergola.
– Aaah! – gridarono tutti e la cappa del cielo s’alzò infinitamente stellata su di loro.
Marcovaldo, interrotto a mano alzata nello scapaccione che voleva dare a Michelino, si sentì come proiettato nello spazio. Il buio che ora regnava all’altezza dei tetti faceva come una barriera oscura che escludeva laggiù il mondo dove continuavano a vorticare geroglifici gialli, verdi e rossi, e ammiccanti occhi di semafori, e il luminoso navigare dei tram vuoti, e le auto invisibili che spingono davanti a sé il cono di luce dei fanali. Da questo mondo non saliva lassù che una diffusa fosforescenza, vaga come un fumo. E ad alzare lo sguardo non più abbarbagliato, s’apriva la prospettiva degli spazi, le costellazioni si dilatavano in profondità, il firmamento ruotava per ogni dove , sfera che contiene tutto e non la contiene nessun limite, e solo uno sfittare della sua trama, come una breccia, apriva verso Venere , per farla risaltare sola sopra la cornice della terra, con la sua ferma trafittura di luce esplosa e concentrata in un punto. Sospesa in questo cielo, la Luna nuova anziché ostentare l’astratta apparenza di mezzaLuna rivelava la sua natura di sfera opaca illuminata intorno dagli sbiechi raggi d’un sole perduto dalla terra, ma che pur conserva – come può vedersi solo in certe notti di prima estate – il suo caldo colore.
E Marcovaldo a guardare quella stretta riva di Luna tagliata là tra ombra e luce, provava una nostalgia come di raggiungere una spiaggia rimasta miracolosamente soleggiata nella notte. Così restavano affacciati alla mansarda, i bambini spaventati dalle smisurate conseguenze del loro gesto, Isolina rapita come in estasi, Fiordaligi che unico tra tutti scorgeva il fioco abbaino illuminato e finalmente il sorriso Lunare della ragazza. La mamma si riscosse: – Su, su, è notte, cosa fate affaticati? Vi prenderete un malanno, sotto questo chiaro di Luna! Michelino puntò la fionda in alto. – E io spengo la Luna! – Fu acciuffato e messo a letto.
Così per il resto di quella e per tutta la notte dopo, la scritta luminosa sul tetto di fronte diceva solo “SPAAK-CO” e della mansarda di Marcovaldo si vedeva il firmamento. Fiordaligi e la ragazza Lunare si mandavano baci sulle dita, e forse parlandosi alla muta sarebbero riusciti a fissare un appuntamento.
Ma la mattina del secondo giorno, sul tetto, tra i castelli della scritta luminosa si stagliavano esili esili le figure di due elettricisti in tuta, che verificarono i tubi e i fili. Con l’aria dei vecchi che prevedono il tempo che farà, Marcovaldo mise il naso fuori e disse:
– Stanotte sarà di nuovo una notte di “GNAC”.
Qualcuno bussava alla mansarda. Aprirono. Era un signore con gli occhiali. – Scusino,
potrei dare un’occhiata dalla loro finestra? Grazie, – e si presentò:
– Dottor Godifredo, agente di pubblicità
luminosa.
“Siamo rovinati! Ci vogliono far pagare i danni!” pensò Marcovaldo e già si mangiava i figli con gli occhi, dimentico dei suoi rapimenti astronomici. “Ora guarda alla finestra e capisce che i sassi non possono essere stati tirati che di qua”. Tentò di mettere le mani avanti: – Sa, son ragazzi, tirano così, ai passeri, pietruzze non so come mai è andata a guastarsi quella scritta della Spaak. Ma li ho castigati, eh, se li ho castigati! E può star sicuro che non si ripeterà più.
Il dottor Godifredo fece una faccia attenta.
– Veramente io lavoro per la “Cognac Tomawak”, non per la “Spaak”. Ero venuto per studiare la possibilità di una rèclame luminosa su questo tetto. Ma mi dica, mi dica lo stesso, m’interessa.
Fu così che Marcovaldo, mezz’ora dopo, concludeva un contratto con la “Cognac Tomawak”, la principale concorrente della “Spaak”. I bambini dovevano tirare con la fionda contro il GNAC ogni volta che al scritta veniva riattivata.
– Dovrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso – disse il dottore Godifredo.
Non si sbagliava: già sull’orlo della bancarotta per le forti spese di pubblicità sostenute, la “Spaak” vide i continui guasti alla sua più bella rèclame luminosa come un cattivo auspicio.
La scritta che ora diceva COGAC ora CONAC ora CONC diffondeva tra i creditori l’idea di un dissesto; a un certo punto l’agenzia pubblicitaria si rifiutò di fare altre riparazioni se non le venivano pagati gli arretrati; la scritta spenta fece crescere l’allarme tra i creditori; la “Spaak” fallì.
Nel cielo di Marcovaldo la Luna piena tondeggiava in tutto il suo splendore. Era l’ultimo quarto, quando gli elettricisti tornarono a rampare sul tetto di fronte. E quella notte a caratteri di fuoco, caratteri alti e spessi il doppio di prima, si leggeva COGNAC TOMAWAK, COGNAC TOMAWAK, COGNAC TOMAWAK che s’accendeva e si spegneva ogni due secondi. Il più colpito di tutti fu Fiordaligi; l’abbaino della ragazza Lunare era sparito dietro un enorme, impenetrabile “vu” doppia.

lunedì 24 settembre 2007

Baccanaglia




C’è qualcos’altro al mondo di perfetto come un grappolo d’uva?

Se osserva con attenzione, guardando i chicchi di polpa giallo oro o blu violacei, più chiari o più scuri, grandi o piccoli, rotondi o addirittura lunghi, opachi o, più spesso, limpidi come le uova di serpente, chi ebbe la fortuna di vedere Baccanaglia, come me, non può fare a meno di farsela tornare in mente.

Ma dov’era Baccanaglia, città dalla forma di grappolo d’uva?

Orbene, lei era nel Cilento, come tutte le città delle chimere.

Baccanaglia era, infatti, adagiata sulla zona costiera tra Agropoli e Castellabate, e scendeva dal Tresino fino al mare.

Appena si arrivava, subito l’odore d’uva raggiungeva il viandante, che si trovava a percorrere un’unica via tortuosa e cedevole come una serie di ponti sollevati dal terreno.
Viadotti incredibili, assurdi cavalcavia, passerelle insensate, sconclusionate intelaiature d’acrobata si susseguivano, formando un’unica strada contorta e avviticchiata, che s’immetteva in tante altre altrettanto sghembe.
A destra e a manca, sopra e sotto i passaggi, c’era un carosello di sfere: le case, le chiese, le scuole o i negozi, le bettole degli artigiani e poi, numerose, le taverne erano in un rincorrersi di globi e di bocce.
Osterie dai nomi buffi, trattorie olezzanti, locande pulite e ordinate, cantine profumate e bottiglierie nuove o vecchie, impolverate o linde, erano dappertutto.
Il rumore del tintinnare dei bicchieri, delle fiaschette, delle bottiglie e bottigline, delle damigiane e dei fiaschi appena stappati raggiungeva, a volte, dei toni assordanti.
Tra i cincin e i plok esplosivi delle bottiglie di lambiccato, le giornate trascorrevano liete a Baccanaglia.

Tanti erano gli oggetti che, lì, si potevano ottenere a buon mercato e l’acquisto disponeva subito di buon umore.
Brocche di vetro colorato, fiaschette dalle forme balorde, boccali d’ogni dimensione, caraffe di cristallo pregiato o di materiale più grezzo, bricchi in ceramica o in porcellana, bicchieri personalizzati con scritte e con decori in varie tinte e bicchierini e boccali cesellati o lavorati a mano e pinte in argento o in peltro e giare di terraglia e orci d’ogni forma e materiale e colore erano esposti assieme a bacche d’uva e al vino bianco o rosso o rosato o grigio, freddo o di cantina, secco, frizzante o spumeggiante e dolce.

Non c’era persona che si recasse a Baccanaglia senza comprare almeno un grano o un chicco o un qualunque piccolo calice che in qualche modo ne fissasse nella sua mente il dolcissimo ricordo.

Dalla strada principale, allontanandosi dai bazar, si potevano percorrere stradine più piccole, strette e anguste. Queste si diramavano a due o a tre, erano sempre sollevate dal terreno e portavano dritto dritto, nel loro arzigogolare, agli usci o ai portoni; e poi c’erano piazze verdeggianti e morbide, vellutate, larghe e che avevano la forma dei palmi delle mani distese. Lì erano soliti andare i bambini per giocare con delle sfere simili a palloni, ma più trasparenti, avvolte in involucri sottili che talora esplodevano e, subito, tutti i piccoli da ogni dove correvano a leccare e a succhiare il succo dolce che ne fuoriusciva.

C’era anche un altro bel divertimento a Baccanaglia: era lo scivolone!
Appena fuori dal centro abitato, scendendo verso il mare, lo scivolone compariva come un bel groviglio folto di boccoli verdi e cedevoli; sembrava un insieme di riccioli di capelli, morbidi, elastici come molle ed ondeggianti a tal punto che anche un leggero alito di vento era sufficiente a farlo muovere.
Così, i ragazzi più grandi si riunivano lì e facevano vere immersioni nel vuoto; quelli maggiormente spericolati si lanciavano incontro alle onde del mare in tempesta o verso il vento invernale e restavano - ore ed ore - a ciondolarsi nell’aria e ad andare su e giù, attaccati allo scivolone.
Quei tuffi nel vuoto sapevano di volo: me lo ricordo bene.

L’ora più bella a Baccanaglia era, comunque, quella del tramonto: dal mare, il sole basso illuminava l’insieme di sfere.
La luce entrava e faceva sfavillare le case rotonde fatte di lucida polpa e di zuccherati sughi: tutto diventava trasparente come una lampadina accesa ed ogni cosa dentro era visibile fuori, proprio come succede ai sogni prima del risveglio, poi, a mano a mano, la luce del sole si spegneva a mare e come piccole lucine di un presepe, Baccanaglia si accendeva; e gli occhi di chi l’osservava si perdevano in un susseguirsi di mille globi luminosi sorretti da ponti incredibili tra cielo e mare.

In quei globi c’era la vita.

Ogni movimento dentro le case o le chiese o le bettole era visibile. Chi n’aveva voglia, poteva trascorrere le ore a guardare questo o quello: ad osservare l’ombra delle belle donne, le quali, chine, facevano il bagno o la doccia – dritte - inarcando le schiene oppure a guardare le famiglie riunite al tavolo per cenare o tanto altro che non sto qui ad elencare.
Attraverso le pareti sottili, tese, semitrasparenti, a cupola ogni gesto diventava uno spettacolo e forse era per questo, che, lì, non esistevano né cinema né teatro né circo.

La gente di Baccanaglia non aveva pudori ad esibirsi e così gli spettacoli erano, ogni volta, diversi, entusiasmanti o scontati, nuovi o ripetitivi, belli o brutti, d’amore o di violenza, però sempre veri, reali e per questo comunque affascinanti.

Quante cose si potevano osservare le notti a Baccanaglia!

Nel silenzio di quel buio rischiarato da tante lucine, le sfere parevano proprio lanterne sospese nell’oscurità e, in ognuna di loro, le piccole immagini intraviste dentro davano vita a spettacoli sorprendenti.
L’occhio, come in un caleidoscopio, passava, saltando, da un globo all’altro e poteva costruire storie diverse ed affascinanti mettendo insieme le vite di quel popolo senza vergogna.
Non era raro scorgere il corpo della propria amata tra le braccia di un uomo diverso da sé o accorgersi di furti e ruberie nella propria casa o in quell’altrui: a Baccanaglia tutto di notte era visibile e tutto era possibile. E che il tale di giorno paresse così e di notte fosse colì o che la signorina al sole paresse diversa da come era al buio era un dato di fatto che non creava scandali o stupori.


Non era nella sostanza Baccanaglia ad essere diversa dalle altre città, ma lo era all’apparenza.

sabato 22 settembre 2007

Baccanalia


C’è qualcosa di più bello di un grappolo d’uva?

Se osserva con attenzione, guardando i chicchi di polpa giallo oro o blu violacei, più chiari o più scuri, grandi o piccoli, rotondi o addirittura lunghi, opachi o, più spesso, limpidi, come le uova di serpente, chi ebbe la fortuna di vedere Baccanalia, come me, non può fare a meno di farsela tornare in mente.

Ma dov’era Baccanalia, città dalla forma di grappolo d’uva?

Orbene, lei era nel Cilento, come tutte le città delle chimere.

Baccanalia era, infatti, nella zona costiera tra Agropoli e Castellabate, proprio vicino al mare, verso il Tresino.

Appena si arrivava, subito l’odore d’uva raggiungeva il viandante, che si trovava a percorrere un’unica via tortuosa e cedevole come una serie di ponti sollevati dal terreno.
Viadotti incredibili, assurdi cavalcavia, passerelle insensate, sconclusionate intelaiature d’acrobata si susseguivano formando un’unica strada contorta e avviticchiata, che s’immetteva in tante altre altrettanto strambe.
A destra e a manca, sopra e sotto i passaggi, c’era un carosello di sfere: le case, le chiese, le scuole o i negozi, le bettole degli artigiani e poi, numerose, le taverne erano in un rincorrersi di globi e di bocce.
Osterie, trattorie, locande, cantine e bottiglierie erano dappertutto ed il rumore del tintinnare dei bicchieri, delle fiaschette, di bottiglie e bottigline, di damigiane e fiaschi appena stappati raggiungeva a volte dei toni assordanti.
Tra i cincin e i plok dell’esplosioni di bottiglie di lambiccato, le giornate trascorrevano liete a Baccanalia.

Tanti erano gli oggetti che, lì, si potevano ottenere a buon mercato e l’acquisto disponeva subito di buon umore.
Brocche, fiaschette, boccali, caraffe, bricchi, bicchieri e pinte e giare e orci d’ogni forma e materiale e colore erano esposti assieme a bacche d’uva e al vino.
Non c’era persona che si recasse a Baccanalia senza comprare almeno un grano o un chicco o un qualunque piccolo calice che in qualche modo ne fissasse nella sua mente il dolcissimo ricordo.
Dalla strada principale allontanandosi dai bazar, si potevano percorrere stradine più piccole, strette e anguste, che si diramavano a due o a tre e che ugualmente erano sollevate dal terreno e portavano diritte diritte agli usci e ai portoni; e poi c’erano piazze verdeggianti e morbide, vellutate, larghe e che avevano la forma dei palmi delle mani. Lì erano soliti andare i bambini per giocare con delle sfere simili a palloni, ma più trasparenti e piccoli, avvolte in involucri sottili che talvolta esplodevano e, subito, tutti i piccoli correvano a leccare e a succhiare il succo dolce che ne fuoriusciva.

C’era anche un altro bel divertimento a Baccanalia: era lo scivolone!
Appena fuori del centro abitato, lo scivolone era un groviglio di boccoli cedevoli come riccioli di capelli, morbidi, elastici ed ondeggianti a tal punto che anche un leggero alito di vento era sufficiente a farlo muovere.
Così, i ragazzi più grandi si riunivano lì e facevano vere corse nel vuoto; quelli maggiormente spericolati si lanciavano contro le onde del mare in tempesta o contro il vento invernale e restavano ore ed ore a ciondolarsi nel vuoto e ad andare su e giù, attaccati allo scivolone.
Quei tuffi nel vuoto sapevano di volo.

L’ora più bella a Baccanalia era, comunque, quella del tramonto: da ogni parte, il sole basso illuminava l’insieme di sfere.
La luce entrava e faceva sfavillare le case rotonde fatte di lucida polpa e di zuccherati sughi: tutto diventava trasparente come una lampadina accesa ed ogni cosa dentro era visibile fuori, proprio come succede ai sogni prima del risveglio, poi, a mano a mano, la luce del sole si spegneva a mare e come piccole lucine di un presepe, Baccanalia si accendeva; e gli occhi di chi l’osservava si perdevano in un susseguirsi di mille globi luminosi sorretti da ponti incredibili tra cielo e mare.
In quei globi c’era la vita.

Per tutti quelli che sono stati almeno una volta a Baccanalia, ciò che resta nell’animo del suo ricordo è il leggero senso di stordimento e di felicità malinconica, che solo quel luogo perso nel Cilento sapeva donare.

venerdì 21 settembre 2007

Baccanalia


Baccanalia

C’è qualcosa di più perfetto d’un grappolo d’uva?

Se osserva con attenzione, guardando i chicchi di polpa giallo oro o blu violacei, più chiari o più scuri, grandi o piccoli, rotondi o lunghi, opachi o più spesso limpidi, come le uova di serpente, chi ebbe la fortuna di vedere Baccanalia, come me, non può fare a meno di farsela tornare in mente.

Ma dov’era Baccanalia, città dalla forma di grappolo d’uva?

Orbene, lei era nel Cilento, come tutte le città delle chimere.

Baccanalia era, infatti, nella zona costiera tra Agropoli e Castellabate, proprio vicino al mare.

Appena si arrivava, subito l’odore d’uva raggiungeva il viandante, che si trovava a percorrere un’unica via tortuosa e cedevole come una serie di ponti sollevati dal terreno.

Viadotti incredibili, assurdi cavalcavia, passerelle insensate, intelaiature d’acrobata si susseguivano formando un’unica strada contorta e avviticchiata.

A destra e a manca, sopra e sotto i passaggi, c’era un carosello di sfere: le case, le chiese, le scuole o i negozi, le bettole degli artigiani e poi, numerose, le taverne erano un rincorrersi di globi e di bocce.

Osterie, trattorie, locande, cantine e bottiglierie erano dappertutto e il rumore del tintinnare dei bicchieri, delle fiaschette, di bottiglie e bottigline, di damigiane e fiaschi da stappare raggiungeva a volte dei toni assordanti.

Tra i cin cin e i plok dell’esplosioni di bottiglie di lambiccato, le giornate trascorrevano liete a Baccanalia.

Dalla strada principale si potevano percorrere stradine più piccole, ma ugualmente sollevate dal terreno, che portavano diritte diritte agli usci e ai portoni; e poi c’erano piazze verdeggianti e morbide, vellutate, larghe e che avevano la forma dei palmi delle mani. Lì erano soliti andare i bambini per giocare con delle sfere simili a palloni, ma più trasparenti e piccoli, che talvolta esplodevano e, subito, tutti i piccoli correvano a leccare e a succhiare il succo dolce che ne fuoriusciva.

C’era anche un altro bel divertimento a Baccanalia: era lo scivolone!

Appena fuori del centro abitato, lo scivolone era un groviglio di boccoli cedevoli come riccioli di capelli, morbidi, elastici ed ondeggianti a tal punto che anche un alito di vento era sufficiente a farlo muovere.

Così i più grandi si riunivano lì e facevano vere corse nel vuoto, quelli maggiormente spericolati si lanciavano contro le onde del mare in tempesta o contro il vento invernale e restavano ore ed ore a dondolare nel vuoto e ad andare su e giù, attaccati allo scivolone.

L’ora più bella a Baccanalia era, comunque, quella del tramonto: da ogni parte, il sole basso illuminava l’insieme di sfere.

La luce entrava e faceva sfavillare le case fatte di lucida polpa e di zuccherati sughi: tutto assumeva il colore dell’oro, tutto diventava trasparente come una lampadina accesa ed ogni cosa dentro era visibile fuori, proprio come i sogni prima del risveglio, poi, a mano a mano, la luce del sole si spegneva a mare e come piccole lucine di un presepe, Baccanalia si accendeva; e gli occhi di chi l’osservava si perdevano in un susseguirsi di mille globi luminosi sorretti da ponti incredibili tra cielo e mare.

Per tutti quelli che sono stati almeno una volta a Baccanalia, ciò che resta del ricordo è il leggero senso di stordimento e di felicità malinconica.

lunedì 10 settembre 2007

WEEKEND NEL CILENTO…CON DELITTO!



Il tragico evento spettacolare che l’Italia stava aspettando: il delitto nel ventre del Cilento

L’Associazione Culturale “Arte e Parte” è lieta di organizzare, in collaborazione con il Club “Dragut” e con il B&B “Antico Convento”, un drammatico weekend di mistero da trascorrere nell'antico borgo di Rocca Cilento a Lustra (SA), nel Parco Nazionale del Cilento al quale potrete partecipare ad ottobre.

Il vostro istinto vi trascinerà a trascorrere un weekend nel prestigioso B&B “Antico Convento” nello scenario medievale di Rocca Cilento (SA), ma, stranamente, non tutto è tranquillo come sembrava.
Nel borgo, infatti, in un’antica e nobile dimora disabitata, si nascondono gli agghiaccianti indizi di un misterioso omicidio inspiegabile e l’assassino sarà…uno di voi!

Voi sarete i veri protagonisti di un intricato mistero da risolvere in una serata musicale durante una cena cilentana a lume di candela: voi investigherete o sarete i presunti assassini e sospetterete ed interrogherete o sarete interrogati e sospettati. Nell'affascinante cornice di un antico insediamento fortificato, lontani dal mondo, nella malia di un borgo dimenticato, vivrete una straordinaria avventura in prima persona, mettendo alla prova le vostre doti investigative o la vostra bravura recitativa.

Sarete abbastanza bravi?

Quello che possiamo promettervi, con assoluta certezza, è che vi divertirete fino a… morire!


WEEKEND CON DELITTO 6 e 7 OTTOBRE 2007:
o Spettacolo interattivo con attori del Teatro “Arte e Parte”; sceneggiatura originale di Milena Esposito e musiche al pianoforte di Gian Luca Nigro
o Aperitivo di benvenuto, cena, colazione, pranzo cilentano tipico
o Pernottamento in camera doppia per una notte.
Programma dettagliato:
Sabato:
• Arrivo al borgo di Rocca Cilento tra le 18: 00 e le 19:30
• Sistemazione presso il prestigioso B&B “Antico Convento”
• Aperitivo di benvenuto
• Inizio spettacolo presso l’antica dimora disabitata ore 20: 30
• Cena con menù tipico cilentano
• Pernottamento in camera doppia presso il prestigioso B&B “Antico Convento”
Domenica:
• Colazione all’”Antico Convento” ore 9:30 circa
• Visita del borgo di Rocca Cilento
• Epilogo e premiazione
• Pranzo presso la tipica trattoria cilentana “Dragut”
• Saluto dell’Associazione
• Partenza per le ore 16:00 circa
COSTO DELL'INTERO PACCHETTO PER IL WEEKEND :
95.00 euro a persona
180.00 euro a coppia (90.00 € a pers.)
340.00 euro per gruppi di quattro persone (85.00 € a pers.)
480.00 euro per gruppi di sei persone (80.00 € a pers.)
600.00 euro per gruppi di otto persone (75.00 € a pers.)
700.00 euro per gruppi di dieci persone (70.00 € a pers.)
780.00 euro per gruppi di dodici persone (65.00 € a pers.)
900.00 euro per gruppi di quindici persone (60.00 € a pers.)

• La partecipazione è consentita ai soci con tessera “Arte e Parte”: la tessera può essere acquistata direttamente al momento della prenotazione al costo di 5 euro ed ha validità annuale dall’acquisto.
• Possono partecipare solo i soci con più di 15 anni d’età.

Il numero massimo di partecipati è molto limitato e vi consigliamo di prenotare quanto prima.
L’evento è a numero chiuso; raggiunto il quale, non si potranno accettare successive prenotazioni.
- Informazioni su come arrivare a Rocca Cilento (SA):
- Raggiungere Rocca Cilento è molto semplice: chi opterà per Treno, Aereo o Nave, arriverà a Napoli.
- In auto:
- dal Nord percorrere l'autostrada A3 Salerno - Reggio Calabria, uscita Battipaglia, proseguire per la SS18 e seguire le indicazione per Agropoli-Vallo della Lucania, uscita Prignano Cilento e seguire le indicazioni per Rutino giunti al bivio per Rutino svoltare a destra e seguire le indicazioni per Rocca Cilento.
- dal Sud uscita Eboli seguire le indicazioni per Paestum - Capaccio giunti sulla variante SS18 e seguire le indicazioni di sopra.
- In treno:
Linea Napoli - Reggio Calabria fermata stazione di Agropoli.

N. B.: chi giunge in treno presso la stazione ferroviaria di Agropoli (SA) potrà prenotare gratuitamente il servizio navetta.
Per informazioni scrivete a arteparte@hotmail.it
B&B l’Antico Convento http://www.anticoconvento.it/index.htm
Per prenotare è necessario chiamare il numero 0974823315 dalle ore 15,30 alle ore 17,00 o al 3349903646 e successivamente versare un acconto del 50% presso il conto che vi verrà indicato.
Il saldo dell'importo sarà versato in contanti all'arrivo.
Eseguito il versamento, mandate un’e-mail all'indirizzo arteparte@hotmail.it con oggetto "Weekend con Delitto 6-7 Ottobre " indicando il nome di tutti i partecipanti e possibilmente anche i loro indirizzi e-mail, in modo da poter essere iscritti alla mailing-list dell'evento e ricevere tutte le informazioni aggiornate ed i primi indizi.

sabato 1 settembre 2007

Ronzare


Ronzare


È che ho voglia di dirtelo senza starci a pensare e di mettere giù le cose. No, anzi, di vomitarle, di farmele uscire dal naso. È che so per certo che non servirà, ma serve a me stavolta, a me.

Non voglio pensare alle parole: non ora, ora devo sfogare questa necessità.

È che so di non capire, di non essere all’altezza, è che so…di non sapere. So che non mi fido.

Ecco! Ma che credi?

Non mi posso fidare più. La tua scelta ormai è fatta: tu ti perdi avanti ed io ti seguo, sì, ma con lo sguardo del cieco, col passo dello zoppo.

Non mi fido e te lo grido: EHI! NON MI FIDO PIÙ DI ME…di me…

Mi soffoco in gola. Non vuole uscire. Rantolo.
Sussurro.
Non mi fido dei miei sensi, di questi sentimenti, del fango che infanga e delle nuvole che hai soffiato come fumo sul mio viso, negli occhi, per annebbiare ogni mio respiro e…e brucia…non strillo, no, ansimo e non mi fermo.
Tu mi scacci come si fa con le mosche…e hai ragione tu: continuo a ronzare senza sapere dove andare, senza una meta, lì…là… e che brusio faccio, ma poi, che faccio?

Che ho fatto…che ti ho fatto?

Che sento, lo senti, eh, lo senti? Mai le mie parole sono state più azzurre.

Inutile, inutile è seguirti, inutile raggiungerti…inutile cercare le parole e dirsele e spingerle con tutta la mia bocca, con la lingua e allungare le mani e le braccia e cercarti in un respiro e nel suono che riecheggia ogni volta che sorridi. Amaro.

Vado giù. Cado strattonata. Spinta a terra.
Mi alzo o almeno ci provo.
Brancolo tramortita.

…ho riposto il mio vestito senza che tu lo vedessi quando mi era indosso…senza guardarmi indietro e senza poter guardare avanti; sono io qui dentro, nel buio dell’armadio chiuso, accanto al vestito
smesso…smesso…smesso…