mercoledì 14 novembre 2007

Vuoi che ti accompagni a casa?




Una bambina senza ombra era stata vista di notte, nel parcheggio della baia di Trentova. Biagio non era solo, la donna accanto a lui era una sposata; erano andati lì per appartarsi un po’: era l’abboccamento di una notte d’agosto tra sconosciuti, incontrati per caso in un bar. Lei aveva ancora la gonna spiegazzata da tirare giù e lui si abbottonava la patta dei calzoni e, mentre finivano di fumarsi una sigaretta in macchina, avevano visto chiaramente scomparire la bambina davanti ai loro occhi. Si era dissolta nella luce dei fari appena accesi.

La retromarcia era stata veloce, velocissima ed una nuvola di terra e sabbia aveva ricoperto la macchina che tornava da dove era arrivata, imponendo la chiusura dei finestrini ai viaggiatori.



La radio era accesa e, d’un tratto, una voce aggiornava il notiziario locale sulle ultime novità sul fantasma di Trentova.



Il comunicato parlava di registrazioni notturne e di un pianto.



Biagio non era a conoscenza di quella notizia e, dopo averne atteso la fine con un gesto improvviso, spense la radio.



Parcheggiò la macchina. La donna lo guardava in silenzio.



Lui la fissò per un attimo.



Un flebile sibilo si fece sentire. Veniva dai sedili posteriori: sembrava un sospiro. Uno di quei sospiri che i bambini fanno, quando tirano su col naso, mentre piangono.



Biagio avrebbe voluto girarsi: sentì un tuffo nel sangue.



La donna mise la mano sulla portiera e con un movimento cercò la maniglia e tirò.



Lo scatto non aprì la macchina: la portiera era bloccata.



Lui cercò d’aprire dal suo lato e niente: non si poteva uscire.



Rimise in moto la macchina e cominciò a correre.



Si dirigeva veloce verso la caserma. Giunto all’incrocio, cercò di sterzare, ma la macchina sembrava pilotata e correva ancora più velocemente.



Biagio voleva accostarsi, ma l’auto non rispondeva ai comandi, allora cercò di spegnerla, senza successo.



La macchina correva nella notte e lasciava il centro abitato e imboccando la vecchia strada, salì verso Torchiara.



Una serie di curve era inghiottita dall’auto in corsa.



Biagio accese la radio: aveva le mani appiccicose e sudate.



C’era della musica pop.



Poi ci fu un rumore come un’interferenza, un mormorio…un sussurro…un pianto.



Lui spense la radio, pigiando sui tasti come un forsennato: il pianto continuava ad uscire dalle casse.



La macchina sfrecciava nella notte e superò il cimitero di Prignano, il centro di Sant’Antuono e con una sterzata imboccò la strada verso San Martino.



Biagio allungò una mano verso la donna che gli era seduta accanto.



Lei era fredda, gelata.



Lui cercò di ritrarre la mano, ma lei la bloccò e la trattenne.



Biagio sentiva le sue unghie entrargli nella carne.



Allora la guardò e abbandonando il volante, si girò e si accorse che lei era pallida e aveva i capelli scarmigliati.



Nel viso mancavano le pupille.



La macchina sterzò ancora dirigendosi verso Rocca Cilento.



Le ruote sgommavano in un rumore infernale.



Biagio non respirava più: lei continuava ad artigliargli la mano e il pianto adesso era più “umano” e veniva chiaramente da una presenza alle loro spalle, sui sedili.



Biagio cercò di guardare nello specchietto retrovisore e vide qualcosa di scuro, forse un volto, sì, era il volto della bambina e aveva gli occhi luminosi, rossi.



I freni cominciarono a stridere sull’asfalto e la macchina si bloccò.



Era davanti al cimitero di Rocca Cilento.



La donna aprì lo sportello e scese, poi fece scendere la bambina dal sedile posteriore e la prese in braccio.



Biagio mise in moto la macchina.



La donna e la bambina salivano il viale del cimitero.



Le due portiere erano ancora spalancate; la macchina era già in moto.



La corsa riprese.



Biagio ebbe appena il tempo di vedere il parapetto infrangersi e fu nel burrone.



© 2007 Milena Esposito

















domenica 4 novembre 2007

CAPODANNO NEL CILENTO...CON DELITTO!


A Rocca Cilento (SA)

L'Associazione Culturale "ARTE E PARTE" presenta l'evento:

CAPODANNO NEL CILENTO... CON DELITTO!

"Demoni a Polmerran"

Testi di Milena Esposito

Musiche dal vivo di Gian Luca Nigro

Cambiamento Connotati - Aperitivo - Spettacolo Interattivo - Cenone di Fine Anno - Musica dal vivo - 2 Pernottamenti con trattamento B&B

Costo dell'intero pacchetto:

295,00 euro a persona

580,00 euro a coppia (290.00 € a pers.)

1.140,00 euro per gruppi di quattro persone (285.00 € a pers.)

1.680,00 euro per gruppi di sei persone (280.00 € a pers.)

2.200,00 euro per gruppi di otto persone (275.00 € a pers.)

2.700,00 euro per gruppi di dieci persone (270.00 € a pers.)

3.180,00 euro per gruppi di dodici persone (265.00 € a pers.)

3.900,00 euro per gruppi di quindici persone (260.00 € a pers.)

  • La partecipazione è consentita ai soci con tessera "Arte e Parte": la tessera può essere acquistata direttamente al momento della prenotazione al costo di 5,00 euro ed ha validità annuale dall'acquisto.
  • Possono partecipare solo i soci con più di 15 anni d'età.
  • Per i soci già in possesso della tessera "Arte e Parte" è previsto uno sconto del 10% sul prezzo a persona.

Prenotazione obbligatoria entro il 21 novembre 2007

Tel. 0974 823315 - 3891119808

arteparte@hotmail.it

http://arteparte.blog.tiscali.it/

PROGRAMMA:

Lunedì, 31 Dicembre:

dalle 16:00 alle 17:00

arrivo al b&b

dalle 16:30

Cambiamento Connotati: trucco, parrucche o acconciature e accessori

alle 19:00

aperitivo

dalle 21:00 alle 23:00
spettacolo interattivo, cena e pausa per scrivere il rapporto finale

dalle 23:00 alle 23:30
epilogo e premiazioni

dalle 23:30 in poi

festeggiamenti aspettando il Nuovo Anno presso li b&b e pernottamento

Martedì, 1 Gennaio:

prima colazione, soggiorno libero, pernottamento e prima colazione

Posti limitati. Vi consigliamo di prenotare quanto prima


Per maggiori informazioni:

E' il capodanno del 1929, che coincide con il compleanno di Molly Richard.

Sulla costa occidentale della Cornovaglia, a Polmerran, cinque persone erano nella villa invernale di Sir Arthur Clode; oltre a lui, infatti, c'erano: Molly Richard, Gladys Clement, Lawrence West, Griselda Larimer ed Estelle Hill.

Quella sera è avvenuta una cosa inverosimile: Molly Richard è morta avvelenata. Alcune foglie di digitale sono state raccolte insieme alla salvia e, durante la cena, è stato servito del salmone farcito con quelle erbe. Tutti si sono sentiti male, ma la signorina Molly Richard è addirittura morta.

Avvelenamento da digitale!


Sarete i protagonisti in giallo del caso presentato, sarete voi i presunti efferati assassini o starà al vostro intuito di detective interrogare i sospettati, analizzare gli indizi, formulare le accuse e risolvere il caso!

NON PERDETE LA TESTA!


Per una serata all'insegna del giallo, vestite i panni dell'investigatore o del sospettato con parrucche, cappelli, trucco e accessori: "a cambiarvi i connotati ci penseremo noi!": Marika, parrucchiera e truccatrice esperta, si occuperà della vostra testa.

Il testo è ambientato alla fine degli anni '20. Consigliamo, ma non è obbligatorio, di vestire in modo da ricordare l'abbigliamento di quel periodo.

Basta poco: magari un abito elegante, bretelle, guanti, bocchino, scialle piumato o papillon...ma alla vostra testa penseremo noi e con l'aiuto di Marika vi "acconceremo per la festa!".

È necessario prenotare entro il 21 Novembre 2007.

domenica 28 ottobre 2007

La neve.


Laura parla. In un lampo davanti ai miei occhi, si apre il grigio di una pagina di giornale. Il fragore del foglio stropicciato si struscia, sembra vento: quella foto che non vuole uscire dai miei occhi ed il rincorrersi muto delle parole stampigliate sono un’eco dentro di me.

Vengono da lontano.

Bianco e nero. Eco. Si stendono le parole sulla carta, che squittisce sotto le mani.

La vita porta via i colori…il bianco e il nero restano e assordano in silenzio.

Lei racconta. Siamo quasi al buio e restiamo sedute per terra, avverto il freddo sotto il culo nei calzoni. Ascolto. Sono state le sue prime parole a riaprire quel giornale che ora svolazza sopra le teste. Dentro la mia, lo sento sbattere come si fa per spaventare i cuccioli di cane che hanno pisciato ovunque.

“A Napoli nell’’80, c’era la neve.”

Se solo Laura sapesse cosa sto pensando.

“Avevo cinque anni e non avevo mai visto la neve!”

Un brivido mi scuote la schiena e la pelle s’inturgidisce sul mio petto.

Ma Laura non lo può sapere…aveva cinque anni e c’era la neve.

La neve copre i colori.

Laura cambia il tono della voce: ora ha davvero cinque anni.

“Non avevo mai visto una cosa così bella: la neve! Era soffice e bianca era tanta e potevo giocare.”

La vedo correre sul mantello d’ovatta e ruzzolare e correre e giocare e strillare.

La vedi? Ascoltala.

Aveva ricoperto ogni cosa. La neve. Cominciai a fare palle di neve e poi ancora e ancora fin quando mi resi conto che si sarebbero sciolte tutte. Allora le mie mani si misero a fare una palla molto più bella delle altre: una palla rotonda come il mondo, una palla magica come le bolle di sapone. Una palla bianca e soffice, che potevo tenere per sempre. Per sempre. Per sempre.”

L’espressione del suo volto cambia: si allarga un sorriso obliquo e gli occhi sembrano spilli.

Mi sembrò la scoperta più grande del mondo e mi trascinai una sedia fino al frigorifero e mi arrampicai per aprire il freezer: la mia palla era al sicuro adesso.”

Sento la porta del freezer che sbatte…e bum!

Tra le pause del suo parlare riascolto il metallo della voce che mi feriva dalla televisione, rivedo la neve…Pertini, le cosce dei morti che sbucano dalle coperte e non so se le immagini fossero in bianco e nero o a colori: c’era la neve. Sopra ogni cosa. Sopra i container e sulle baracche e sulle case spaccate. E c’era una tenda di una cucina che rimaneva appesa al balcone, ma non c’era più la cucina e non c’era più la casa e non c’era…c’era la neve.

I fiori sopra quel balcone sono appassiti e bruciati dal gelo: è la foto, la foto senza i colori dei fiori, la foto in bianco e nero sbiadita tra il piombo del giornale e le mie dita macchiate di nero, le mie dita bianche.

Laura continua il suo racconto. Alle sue spalle c’è una lampada rotonda come una palla di neve. La luce viene dal basso ed è calda, pare una stufa alogena.

Vorrei allungare le mie braccia per sentire il caldo sul nudo delle mani, ma resto ferma nelle sue parole.

Le dice di un fiato. Poi resta in silenzio. Risento la neve.

Il silenzio della neve è diverso…

La luce che vedo è quella di un neon. Un uomo apre il freezer. Plok! Prende la palla di neve e la fa scongelare sul lavello d’acciaio.

Gocciola.

Davanti agli occhi di Laura, la palla diventa acqua, diventa nulla.

“Ne ho sofferto tanto.”

Laura termina il suo racconto: “Quell’uomo era mio padre!”

“Papà!...la neve non c’è più…papà…”

Gocciola.

Me la ricordo quella neve: era sporca di sangue, era la tomba dei morti sepolti, dei morti sepolti sotto la neve, sotto le macerie delle case.

Di quei morti che appestavano le strade squassate dal terremoto.

La neve era sporca…

La neve ha ucciso uomini e uomini e donne e corpi mutilati e informi e bambini nelle culle e nelle braccia prive di vita delle mamme e dei papà, la neve ne ha uccisi più del terremoto.

Vorrei poterlo dire a Laura e forse la consolerebbe un po’…ma non si possono asciugare le lacrime quando sono di neve.

martedì 9 ottobre 2007

un guanto


Un guanto precipitò da una mano desiderata
a toccare il pavimento del mondo in una pista affollata.
Un gentiluomo, un infedele lo seguì con lo sguardo.
E stava quasi per raggiungerlo, ma già troppo in ritardo,
e stava quasi per raggiungerlo, ma troppo in ritardo.
Era scomparsa quella mano e tutta la compagnia
e chissà se era mai esistita.
Era scomparsa quella mano e restava la nostalgia
e il guanto e la sua padrona scivolavano via
e il guanto e la sua padrona pattinavano via.
Sotto un albero senza fiori si struggeva l'amore amato.
Il guanto era a pochi passi, irraggiungibile e consumato.
In quella grande tempesta d'erba, non era estate, nè primavera.
E non sembrava nemmeno autunno però l'inverno non esisteva.
E non sembrava nemmeno autunno perchè l'inverno non esisteva.
Quando un uomo da una piccola barca con un mezzo marinaio
vide qualcosa biancheggiare.
Un uomo da una piccola barca, sporgendosi sul mare:
era il guanto che rischiava di annegare,
era il guanto che rischiava di affondare.
Fu un trionfo di conghiglie, un omaggio di fiori
per il guanto restituito alla banalità dei cuori,
ad una spiaggia senza sabbia, a una passione intravista
ad una gabbia senza chiave, ad una stanza senza vista,
ad una gabbia senza chiave, ad una vita senza vista.
E intanto milioni di rose rifluivano sul bagnasciuga.
E chissà se si può capire.
Che milioni di rose non profumano mica
se non sono i tuoi fiori a fiorire,
se i tuoi occhi non mi fanno più dormire.


Era la notte di quel brutto giorno, i guanti erano sconfinati,
come l'incubo di un assassino o i desideri dei condannati.
Dietro al guanto maggiore la luna era crescente
e piccoli guanti risalivano la corrente
e piccoli guanti risalivano la corrente.
Fino al Capo dei sogni e alla riva
del letto dell'innocente che dormiva.
Un mostro sconosciuto osservava non osservato
sopra a un tavolo il guanto incriminato
sopra al tavolo un guanto immacolato.


E il guanto fu rapito in una notte d'inchiostro
da quel mistero chiamato amore
da quell'amore che sembrava un mostro.
Inutilmente due nude mani si protesero a trattenerlo.
Il guanto era già nascosto dove nessuno può più vederlo,
il guanto era già lontano quanto nessuno può più saperlo.
Oltre la pista di pattinaggio e le passioni al dì di festa
e le onde di tutti i mari.
E il trionfo nella tempesta e le rose nella schiuma.
Il guanto era volato più alto della luna.
Il guanto era volato più leggero di una piuma.


Oltre il luogo e all'azione e al tempo consentito,
e all'amore e le sue pene.
Il guanto si era già posato in quel quadro infinito
dove Psiche e Cupido governano insieme
dove Psiche e Cupido sorridono insieme.

venerdì 5 ottobre 2007

Corbezzola



Corbezzola

La prima impressione che si ha di Corbezzola è quella di una tavolozza di un pittore. Ma una tavolozza servita per dipingere un quadro d’autunno e quindi sporca di giallo, di arancione e di verde marcio o di salvia e di ocra e di dorato e di rosso.

La prima volta ci arrivai che pioveva. La pioggia rendeva tutto diverso.

Il rosso e il giallo erano liquidi. La città appariva sospesa su una coppa d’acqua e lì si rifletteva.

Ogni cosa era il suo doppio e le case a grappoli si potevano rimirare nel bagliore della pozza mai ferma per il cadere delle gocce.

Il ticchettio rendeva tutto allegro e dalle case i più piccoli uscivano utilizzando grandi passerelle a forma di lanceolate foglie.

Tutti i bambini portavano lunghe tuniche a corolla gonfie come palloncini. Scendendo si macchiavano gli abiti vaporosi e bianchi, ricchi di balze e di pizzi.

Sugli usci delle case le mamme restavano a guardare.

Loro erano abbottonate in abiti simili a quelli dei figli, ma di una tinta crema ed avevano il viso rosso e paffuto.

Le mamme di Corbezzola erano famose nel Cilento per l’indulgenza e la dolcezza.

Le case, vi dicevo, erano appese al verde e avevano per malta quel colore rosso-arancio delle tonache dei monaci buddisti.

Gli intonaci erano grezzi e spessi, a grana doppia.

Tutta la città di Corbezzola ricopriva un territorio enorme, tanto da poterla definire la capitale del Cilento.

S’inerpicava per colline e precipitava in burroni. Arrivava giù fino al fiume Solofrone, confinava con Cicerale e Giungano, costeggiava Finocchio, Ogliastro, Eredita.

La città era sorvolata da grandi foglie, in realtà, direi che Corbezzola era immersa in un bosco.

Si arrivava percorrendo solo grandi strade in salita o risalendo il fiume.

In quel giorno di pioggia lo spettacolo era inusuale.

I bambini, dicevo, scendevano verso l’acqua e lì si rimiravano dalle barche a forma di foglie.

La cosa era che per ogni immagine di bimbo corrispondeva una cosa diversa dal sé.

Questo, certo, può apparire ben strano, ma in realtà era davvero attraente.

Le mamme dall’alto delle loro case, chi alla porta, chi affacciata alla finestra o al balcone, seguivano con attenzione l’immagine riflessa dei propri figli.

Se il bimbo era magro appariva, sì, magro, ma diverso, se era alto poteva restar alto o diventarlo ancora di più, ma comunque quella immagine ne rendeva storti il viso o gli occhi, o il sorriso.

Poi nel riflesso cambiavano le tinte di quei piccoli personaggi, i colori dei capelli o l’iride degli occhi o l’incarnato della pelle.

Una cosa era certa: ai piccoli, quella metamorfosi piaceva.

Voglio essere proprio così. Ripetevano l’un l’altro.

Mi piace questa faccia qui! Urlavano dal basso alle mamme e le mamme sorridevano.

Per guardarsi meglio si sporgevano sul pelo dell’acqua e avvicinavano il viso il più possibile.

Dall’alto le mamme chiacchieravano tra loro beatamente.

Poi, d’improvviso, la pioggia finì.

Le nubi furono spazzate via e…l’arcobaleno fece la sua comparsa.

Allora davvero a Corbezzola si fece festa!

Prima che l’acqua s’asciugasse, ogni bimbo rubò al proprio riflesso la nuova immagine di sè e dalle case le mamme scesero a dorso dell’arcobaleno, ruzzolando con le gambe all’aria e col viso ancora più rosso. Tutti gli uomini tornarono dal bosco portando selvaggina o funghi o fiori.

Ogni casa gialla diventò rossa e le rosse marroni e le marroni caddero dall’alto provocando gran tonfi e gran risate e tutti insieme si misero a pigiar quelle palle brune e ne ricavarono un vino profumato e forte e brindarono, brindarono fino alla notte.

In realtà siccome con la pioggia la città aveva nell’acqua il suo duplicato, le case che s’erano trasformate in vino, non so bene, se proprio per effetto del veder doppio che il vino dà, erano ancora lì, penzolanti nel buio con le luci accese e le porte aperte.

Gli uomini, le donne, i bambini, cantando, risalivano lenti utilizzando le grandi strade.

E le mamme ed i papà portavano a casa i bambini diversi, ma non più trasformati da come lo sono i nostri quando crescono.

giovedì 27 settembre 2007

LUNA E GNAC ITALO CALVINO


Dal romanzo "Marcovaldo" di Italo Calvino.
Voglio tenerlo sul mio blog come fiori in un vaso.


La notte durava venti secondi, e venti secondi il GNAC. Per venti secondi si vedeva il cielo azzurro variegato di nuvole nere, la falce della Luna crescente dorata, sottolineata da un impalpabile alone, e poi le stelle che più le si guardava più infittivano la loro pungente piccolezza, fino allo spolverio della Via Lattea, tutto questo scritto in fretta in fretta, ogni particolare su cui ci si fermava era qualcosa dell’insieme che si perdeva, perché i venti secondi finivano subito e cominciava il GNAC.
Il GNAC era una parte della scritta pubblicitaria SPAAK-COGNAC sul tetto di fronte, che stava venti secondi accesa e venti spenta, e quando era accesa non si vedeva nient’altro. La Luna improvvisamente sbiadiva e il cielo diventava uniformemente nero e piatto, le stelle perdevano il brillio, e i gatti e le gatte che da dieci secondi lanciavano gnaulii d’amore muovendosi languidi uno incontro all’altro lungo le grondaie e le cimase, ora, col GNAC, s’acquattavano sulle tegole a pelo ritto, nella fosforescente luce al neon.
Affacciata alla mansarda in cui abitava, la famiglia di Marcovaldo era attraversata da opposte correnti di pensieri. C’era la notte e Isolina, che ormai era una ragazza grande, si sentiva trasportata per il chiar di Luna, il cuore le si struggeva, e fino il più smorzato gracchiar di radio dai piani inferiori dello stabile le arrivava come i rintocchi di una serenata; c’era il GNAC e quella radio pareva pigliare un altro ritmo, un
ritmo jazz, e Isolina pensava ai dancing tutti luci e lei poverina lassù sola.
Pietruccio e Michelino sgranavano gli occhi nella notte e si lasciavano invadere da una calda e soffice paura d’esser circondati di foreste piene di briganti; poi, il GNAC! e scattavano coi pollici e gli indici tesi, l’uno contro l’altro: – Alto le mani! Sono Nembo Kid! – Domitilla, la madre, a ogni spegnersi della notte pensava: “Ora i ragazzi bisogna ritirarli, quest’aria può far male. E Isolina affacciata a quest’ora è una cosa che non va!” Ma tutto poi era di nuovo luminoso, elettrico, fuori come dentro, e Domitilla si sentiva come in visita in una casa di riguardo.
Fiordaligi, invece, giovinotto malinconico, vedeva ogni volta che si spegneva il GNAC apparire dentro la voluta del “gi” la finestra appena illuminata d’un abbaino, e dietro il vetro un viso di ragazza color di Luna, color di neon, color di luce nella notte, una bocca ancor quasi da bambina che appena lui le sorrideva si schiudeva impercettibilmente e già pareva aprirsi in un sorriso, quando tutt’un tratto dal buio risaettava fuori quello spietato “gi” del GNAC e il viso perdeva i contorni, si trasformava in una fiocca ombra chiara, e della bocca bambina non si sapeva più se aveva risposto al suo sorriso.In mezzo a questa tempesta di passioni, Marcovaldo cercava d’insegnare ai figlioli la posizione dei corpi celesti.
– Quello è il Gran Carro, uno due tre quattro e lì il timone, quello è il Piccolo Carro, e la Stella Polare segna il Nord.
– E quell’altra, cosa segna?
– Quella segna “ci”. Ma non c’entra con le stelle. È l’ultima lettera della parola COGNAC. Le stelle invece segnano i punti cardinali. Nord Sud Est Ovest. La Luna ha la gobba a ovest. Gobba a ponente, Luna crescente. Gobba a levante, Luna calante.
– Papà, allora il cognac è calante? La ci ha la gobba a levante!
– Non c’entra, crescente o calante: è una scritta messa lì dalla Spaak.
– E la Luna che ditta l’ha messa?
– La Luna non l’ha messa una ditta. È un satellite, e c’è sempre.
– Se c’è sempre, perché cambia di gobba?
– Sono i quarti. Se ne vede solo un pezzo.
– Anche di COGNAC se ne vede solo un pezzo.
– Perché c’è il tetto del palazzo Pierbernardi che è più alto.
– Più alto della Luna?
E così, ad ogni accendersi del GNAC, gli astri di Marcovaldo andavano a confondersi coi commerci terrestri, ed Isolina trasformava un sospiro nell’ansimare d’un mambo canticchiato, e la ragazza dell’abbaino scompariva in quell’anello abbagliante e freddo, nascondendo la sua risposta al bacio che Fiordaligi aveva finalmente avuto il coraggio di mandarle sulla punta delle dita, e Filippetto e Michelino coi pugni davanti al viso giocavano al mitragliamento aereo, – Ta- ta- ta- tà… – contro la scritta luminosa, che dopo i venti secondi si spegneva.
– Ta-ta-tà... Hai visto, papà, che l’ho spenta con una sola raffica ? – disse Filippetto, ma già, fuori della luce al neon, il suo fanatismo guerriero era svanito e gli occhi gli si riempivano di sonno.
– Magari ! – scappò detto al padre, – andasse in pezzi! Vi farei vedere il Leone, i Gemelli… – Il Leone! – Michelino fu preso d’entusiasmo. – Aspetta! – Gli era venuta un’idea. Prese la fionda, la caricò del ghiaino di cui sempre aveva in tasca una riserva, e tirò una sventagliata di sassolini con tutte le forze contro il “GNAC”.
Si sentì la gragnuola cadere sparpagliata sulle tegole del tetto di fronte, sulle lamiere della gronda, il tintinnio dei vetri d’una finestra colpita, il gong d’un sassolino picchiato giù sulla scodella d’un fanale, una voce in strada. Ma la scritta luminosa proprio sul momento del tiro s’era spenta per la fine dei suoi venti secondi.E tutti nella mansarda presero mentalmente a contare: uno due tre, dieci undici, fino a venti. Contarono diciannove, tirarono il respiro, contarono venti, contarono ventuno ventidue nel timore d’aver contato troppo in fretta, ma no, nulla, “GNAC” non si riaccendeva, restava un nero ghirigoro male decifrabile intrecciato al suo castello di sostegno come la vite alla pergola.
– Aaah! – gridarono tutti e la cappa del cielo s’alzò infinitamente stellata su di loro.
Marcovaldo, interrotto a mano alzata nello scapaccione che voleva dare a Michelino, si sentì come proiettato nello spazio. Il buio che ora regnava all’altezza dei tetti faceva come una barriera oscura che escludeva laggiù il mondo dove continuavano a vorticare geroglifici gialli, verdi e rossi, e ammiccanti occhi di semafori, e il luminoso navigare dei tram vuoti, e le auto invisibili che spingono davanti a sé il cono di luce dei fanali. Da questo mondo non saliva lassù che una diffusa fosforescenza, vaga come un fumo. E ad alzare lo sguardo non più abbarbagliato, s’apriva la prospettiva degli spazi, le costellazioni si dilatavano in profondità, il firmamento ruotava per ogni dove , sfera che contiene tutto e non la contiene nessun limite, e solo uno sfittare della sua trama, come una breccia, apriva verso Venere , per farla risaltare sola sopra la cornice della terra, con la sua ferma trafittura di luce esplosa e concentrata in un punto. Sospesa in questo cielo, la Luna nuova anziché ostentare l’astratta apparenza di mezzaLuna rivelava la sua natura di sfera opaca illuminata intorno dagli sbiechi raggi d’un sole perduto dalla terra, ma che pur conserva – come può vedersi solo in certe notti di prima estate – il suo caldo colore.
E Marcovaldo a guardare quella stretta riva di Luna tagliata là tra ombra e luce, provava una nostalgia come di raggiungere una spiaggia rimasta miracolosamente soleggiata nella notte. Così restavano affacciati alla mansarda, i bambini spaventati dalle smisurate conseguenze del loro gesto, Isolina rapita come in estasi, Fiordaligi che unico tra tutti scorgeva il fioco abbaino illuminato e finalmente il sorriso Lunare della ragazza. La mamma si riscosse: – Su, su, è notte, cosa fate affaticati? Vi prenderete un malanno, sotto questo chiaro di Luna! Michelino puntò la fionda in alto. – E io spengo la Luna! – Fu acciuffato e messo a letto.
Così per il resto di quella e per tutta la notte dopo, la scritta luminosa sul tetto di fronte diceva solo “SPAAK-CO” e della mansarda di Marcovaldo si vedeva il firmamento. Fiordaligi e la ragazza Lunare si mandavano baci sulle dita, e forse parlandosi alla muta sarebbero riusciti a fissare un appuntamento.
Ma la mattina del secondo giorno, sul tetto, tra i castelli della scritta luminosa si stagliavano esili esili le figure di due elettricisti in tuta, che verificarono i tubi e i fili. Con l’aria dei vecchi che prevedono il tempo che farà, Marcovaldo mise il naso fuori e disse:
– Stanotte sarà di nuovo una notte di “GNAC”.
Qualcuno bussava alla mansarda. Aprirono. Era un signore con gli occhiali. – Scusino,
potrei dare un’occhiata dalla loro finestra? Grazie, – e si presentò:
– Dottor Godifredo, agente di pubblicità
luminosa.
“Siamo rovinati! Ci vogliono far pagare i danni!” pensò Marcovaldo e già si mangiava i figli con gli occhi, dimentico dei suoi rapimenti astronomici. “Ora guarda alla finestra e capisce che i sassi non possono essere stati tirati che di qua”. Tentò di mettere le mani avanti: – Sa, son ragazzi, tirano così, ai passeri, pietruzze non so come mai è andata a guastarsi quella scritta della Spaak. Ma li ho castigati, eh, se li ho castigati! E può star sicuro che non si ripeterà più.
Il dottor Godifredo fece una faccia attenta.
– Veramente io lavoro per la “Cognac Tomawak”, non per la “Spaak”. Ero venuto per studiare la possibilità di una rèclame luminosa su questo tetto. Ma mi dica, mi dica lo stesso, m’interessa.
Fu così che Marcovaldo, mezz’ora dopo, concludeva un contratto con la “Cognac Tomawak”, la principale concorrente della “Spaak”. I bambini dovevano tirare con la fionda contro il GNAC ogni volta che al scritta veniva riattivata.
– Dovrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso – disse il dottore Godifredo.
Non si sbagliava: già sull’orlo della bancarotta per le forti spese di pubblicità sostenute, la “Spaak” vide i continui guasti alla sua più bella rèclame luminosa come un cattivo auspicio.
La scritta che ora diceva COGAC ora CONAC ora CONC diffondeva tra i creditori l’idea di un dissesto; a un certo punto l’agenzia pubblicitaria si rifiutò di fare altre riparazioni se non le venivano pagati gli arretrati; la scritta spenta fece crescere l’allarme tra i creditori; la “Spaak” fallì.
Nel cielo di Marcovaldo la Luna piena tondeggiava in tutto il suo splendore. Era l’ultimo quarto, quando gli elettricisti tornarono a rampare sul tetto di fronte. E quella notte a caratteri di fuoco, caratteri alti e spessi il doppio di prima, si leggeva COGNAC TOMAWAK, COGNAC TOMAWAK, COGNAC TOMAWAK che s’accendeva e si spegneva ogni due secondi. Il più colpito di tutti fu Fiordaligi; l’abbaino della ragazza Lunare era sparito dietro un enorme, impenetrabile “vu” doppia.

lunedì 24 settembre 2007

Baccanaglia




C’è qualcos’altro al mondo di perfetto come un grappolo d’uva?

Se osserva con attenzione, guardando i chicchi di polpa giallo oro o blu violacei, più chiari o più scuri, grandi o piccoli, rotondi o addirittura lunghi, opachi o, più spesso, limpidi come le uova di serpente, chi ebbe la fortuna di vedere Baccanaglia, come me, non può fare a meno di farsela tornare in mente.

Ma dov’era Baccanaglia, città dalla forma di grappolo d’uva?

Orbene, lei era nel Cilento, come tutte le città delle chimere.

Baccanaglia era, infatti, adagiata sulla zona costiera tra Agropoli e Castellabate, e scendeva dal Tresino fino al mare.

Appena si arrivava, subito l’odore d’uva raggiungeva il viandante, che si trovava a percorrere un’unica via tortuosa e cedevole come una serie di ponti sollevati dal terreno.
Viadotti incredibili, assurdi cavalcavia, passerelle insensate, sconclusionate intelaiature d’acrobata si susseguivano, formando un’unica strada contorta e avviticchiata, che s’immetteva in tante altre altrettanto sghembe.
A destra e a manca, sopra e sotto i passaggi, c’era un carosello di sfere: le case, le chiese, le scuole o i negozi, le bettole degli artigiani e poi, numerose, le taverne erano in un rincorrersi di globi e di bocce.
Osterie dai nomi buffi, trattorie olezzanti, locande pulite e ordinate, cantine profumate e bottiglierie nuove o vecchie, impolverate o linde, erano dappertutto.
Il rumore del tintinnare dei bicchieri, delle fiaschette, delle bottiglie e bottigline, delle damigiane e dei fiaschi appena stappati raggiungeva, a volte, dei toni assordanti.
Tra i cincin e i plok esplosivi delle bottiglie di lambiccato, le giornate trascorrevano liete a Baccanaglia.

Tanti erano gli oggetti che, lì, si potevano ottenere a buon mercato e l’acquisto disponeva subito di buon umore.
Brocche di vetro colorato, fiaschette dalle forme balorde, boccali d’ogni dimensione, caraffe di cristallo pregiato o di materiale più grezzo, bricchi in ceramica o in porcellana, bicchieri personalizzati con scritte e con decori in varie tinte e bicchierini e boccali cesellati o lavorati a mano e pinte in argento o in peltro e giare di terraglia e orci d’ogni forma e materiale e colore erano esposti assieme a bacche d’uva e al vino bianco o rosso o rosato o grigio, freddo o di cantina, secco, frizzante o spumeggiante e dolce.

Non c’era persona che si recasse a Baccanaglia senza comprare almeno un grano o un chicco o un qualunque piccolo calice che in qualche modo ne fissasse nella sua mente il dolcissimo ricordo.

Dalla strada principale, allontanandosi dai bazar, si potevano percorrere stradine più piccole, strette e anguste. Queste si diramavano a due o a tre, erano sempre sollevate dal terreno e portavano dritto dritto, nel loro arzigogolare, agli usci o ai portoni; e poi c’erano piazze verdeggianti e morbide, vellutate, larghe e che avevano la forma dei palmi delle mani distese. Lì erano soliti andare i bambini per giocare con delle sfere simili a palloni, ma più trasparenti, avvolte in involucri sottili che talora esplodevano e, subito, tutti i piccoli da ogni dove correvano a leccare e a succhiare il succo dolce che ne fuoriusciva.

C’era anche un altro bel divertimento a Baccanaglia: era lo scivolone!
Appena fuori dal centro abitato, scendendo verso il mare, lo scivolone compariva come un bel groviglio folto di boccoli verdi e cedevoli; sembrava un insieme di riccioli di capelli, morbidi, elastici come molle ed ondeggianti a tal punto che anche un leggero alito di vento era sufficiente a farlo muovere.
Così, i ragazzi più grandi si riunivano lì e facevano vere immersioni nel vuoto; quelli maggiormente spericolati si lanciavano incontro alle onde del mare in tempesta o verso il vento invernale e restavano - ore ed ore - a ciondolarsi nell’aria e ad andare su e giù, attaccati allo scivolone.
Quei tuffi nel vuoto sapevano di volo: me lo ricordo bene.

L’ora più bella a Baccanaglia era, comunque, quella del tramonto: dal mare, il sole basso illuminava l’insieme di sfere.
La luce entrava e faceva sfavillare le case rotonde fatte di lucida polpa e di zuccherati sughi: tutto diventava trasparente come una lampadina accesa ed ogni cosa dentro era visibile fuori, proprio come succede ai sogni prima del risveglio, poi, a mano a mano, la luce del sole si spegneva a mare e come piccole lucine di un presepe, Baccanaglia si accendeva; e gli occhi di chi l’osservava si perdevano in un susseguirsi di mille globi luminosi sorretti da ponti incredibili tra cielo e mare.

In quei globi c’era la vita.

Ogni movimento dentro le case o le chiese o le bettole era visibile. Chi n’aveva voglia, poteva trascorrere le ore a guardare questo o quello: ad osservare l’ombra delle belle donne, le quali, chine, facevano il bagno o la doccia – dritte - inarcando le schiene oppure a guardare le famiglie riunite al tavolo per cenare o tanto altro che non sto qui ad elencare.
Attraverso le pareti sottili, tese, semitrasparenti, a cupola ogni gesto diventava uno spettacolo e forse era per questo, che, lì, non esistevano né cinema né teatro né circo.

La gente di Baccanaglia non aveva pudori ad esibirsi e così gli spettacoli erano, ogni volta, diversi, entusiasmanti o scontati, nuovi o ripetitivi, belli o brutti, d’amore o di violenza, però sempre veri, reali e per questo comunque affascinanti.

Quante cose si potevano osservare le notti a Baccanaglia!

Nel silenzio di quel buio rischiarato da tante lucine, le sfere parevano proprio lanterne sospese nell’oscurità e, in ognuna di loro, le piccole immagini intraviste dentro davano vita a spettacoli sorprendenti.
L’occhio, come in un caleidoscopio, passava, saltando, da un globo all’altro e poteva costruire storie diverse ed affascinanti mettendo insieme le vite di quel popolo senza vergogna.
Non era raro scorgere il corpo della propria amata tra le braccia di un uomo diverso da sé o accorgersi di furti e ruberie nella propria casa o in quell’altrui: a Baccanaglia tutto di notte era visibile e tutto era possibile. E che il tale di giorno paresse così e di notte fosse colì o che la signorina al sole paresse diversa da come era al buio era un dato di fatto che non creava scandali o stupori.


Non era nella sostanza Baccanaglia ad essere diversa dalle altre città, ma lo era all’apparenza.

sabato 22 settembre 2007

Baccanalia


C’è qualcosa di più bello di un grappolo d’uva?

Se osserva con attenzione, guardando i chicchi di polpa giallo oro o blu violacei, più chiari o più scuri, grandi o piccoli, rotondi o addirittura lunghi, opachi o, più spesso, limpidi, come le uova di serpente, chi ebbe la fortuna di vedere Baccanalia, come me, non può fare a meno di farsela tornare in mente.

Ma dov’era Baccanalia, città dalla forma di grappolo d’uva?

Orbene, lei era nel Cilento, come tutte le città delle chimere.

Baccanalia era, infatti, nella zona costiera tra Agropoli e Castellabate, proprio vicino al mare, verso il Tresino.

Appena si arrivava, subito l’odore d’uva raggiungeva il viandante, che si trovava a percorrere un’unica via tortuosa e cedevole come una serie di ponti sollevati dal terreno.
Viadotti incredibili, assurdi cavalcavia, passerelle insensate, sconclusionate intelaiature d’acrobata si susseguivano formando un’unica strada contorta e avviticchiata, che s’immetteva in tante altre altrettanto strambe.
A destra e a manca, sopra e sotto i passaggi, c’era un carosello di sfere: le case, le chiese, le scuole o i negozi, le bettole degli artigiani e poi, numerose, le taverne erano in un rincorrersi di globi e di bocce.
Osterie, trattorie, locande, cantine e bottiglierie erano dappertutto ed il rumore del tintinnare dei bicchieri, delle fiaschette, di bottiglie e bottigline, di damigiane e fiaschi appena stappati raggiungeva a volte dei toni assordanti.
Tra i cincin e i plok dell’esplosioni di bottiglie di lambiccato, le giornate trascorrevano liete a Baccanalia.

Tanti erano gli oggetti che, lì, si potevano ottenere a buon mercato e l’acquisto disponeva subito di buon umore.
Brocche, fiaschette, boccali, caraffe, bricchi, bicchieri e pinte e giare e orci d’ogni forma e materiale e colore erano esposti assieme a bacche d’uva e al vino.
Non c’era persona che si recasse a Baccanalia senza comprare almeno un grano o un chicco o un qualunque piccolo calice che in qualche modo ne fissasse nella sua mente il dolcissimo ricordo.
Dalla strada principale allontanandosi dai bazar, si potevano percorrere stradine più piccole, strette e anguste, che si diramavano a due o a tre e che ugualmente erano sollevate dal terreno e portavano diritte diritte agli usci e ai portoni; e poi c’erano piazze verdeggianti e morbide, vellutate, larghe e che avevano la forma dei palmi delle mani. Lì erano soliti andare i bambini per giocare con delle sfere simili a palloni, ma più trasparenti e piccoli, avvolte in involucri sottili che talvolta esplodevano e, subito, tutti i piccoli correvano a leccare e a succhiare il succo dolce che ne fuoriusciva.

C’era anche un altro bel divertimento a Baccanalia: era lo scivolone!
Appena fuori del centro abitato, lo scivolone era un groviglio di boccoli cedevoli come riccioli di capelli, morbidi, elastici ed ondeggianti a tal punto che anche un leggero alito di vento era sufficiente a farlo muovere.
Così, i ragazzi più grandi si riunivano lì e facevano vere corse nel vuoto; quelli maggiormente spericolati si lanciavano contro le onde del mare in tempesta o contro il vento invernale e restavano ore ed ore a ciondolarsi nel vuoto e ad andare su e giù, attaccati allo scivolone.
Quei tuffi nel vuoto sapevano di volo.

L’ora più bella a Baccanalia era, comunque, quella del tramonto: da ogni parte, il sole basso illuminava l’insieme di sfere.
La luce entrava e faceva sfavillare le case rotonde fatte di lucida polpa e di zuccherati sughi: tutto diventava trasparente come una lampadina accesa ed ogni cosa dentro era visibile fuori, proprio come succede ai sogni prima del risveglio, poi, a mano a mano, la luce del sole si spegneva a mare e come piccole lucine di un presepe, Baccanalia si accendeva; e gli occhi di chi l’osservava si perdevano in un susseguirsi di mille globi luminosi sorretti da ponti incredibili tra cielo e mare.
In quei globi c’era la vita.

Per tutti quelli che sono stati almeno una volta a Baccanalia, ciò che resta nell’animo del suo ricordo è il leggero senso di stordimento e di felicità malinconica, che solo quel luogo perso nel Cilento sapeva donare.

venerdì 21 settembre 2007

Baccanalia


Baccanalia

C’è qualcosa di più perfetto d’un grappolo d’uva?

Se osserva con attenzione, guardando i chicchi di polpa giallo oro o blu violacei, più chiari o più scuri, grandi o piccoli, rotondi o lunghi, opachi o più spesso limpidi, come le uova di serpente, chi ebbe la fortuna di vedere Baccanalia, come me, non può fare a meno di farsela tornare in mente.

Ma dov’era Baccanalia, città dalla forma di grappolo d’uva?

Orbene, lei era nel Cilento, come tutte le città delle chimere.

Baccanalia era, infatti, nella zona costiera tra Agropoli e Castellabate, proprio vicino al mare.

Appena si arrivava, subito l’odore d’uva raggiungeva il viandante, che si trovava a percorrere un’unica via tortuosa e cedevole come una serie di ponti sollevati dal terreno.

Viadotti incredibili, assurdi cavalcavia, passerelle insensate, intelaiature d’acrobata si susseguivano formando un’unica strada contorta e avviticchiata.

A destra e a manca, sopra e sotto i passaggi, c’era un carosello di sfere: le case, le chiese, le scuole o i negozi, le bettole degli artigiani e poi, numerose, le taverne erano un rincorrersi di globi e di bocce.

Osterie, trattorie, locande, cantine e bottiglierie erano dappertutto e il rumore del tintinnare dei bicchieri, delle fiaschette, di bottiglie e bottigline, di damigiane e fiaschi da stappare raggiungeva a volte dei toni assordanti.

Tra i cin cin e i plok dell’esplosioni di bottiglie di lambiccato, le giornate trascorrevano liete a Baccanalia.

Dalla strada principale si potevano percorrere stradine più piccole, ma ugualmente sollevate dal terreno, che portavano diritte diritte agli usci e ai portoni; e poi c’erano piazze verdeggianti e morbide, vellutate, larghe e che avevano la forma dei palmi delle mani. Lì erano soliti andare i bambini per giocare con delle sfere simili a palloni, ma più trasparenti e piccoli, che talvolta esplodevano e, subito, tutti i piccoli correvano a leccare e a succhiare il succo dolce che ne fuoriusciva.

C’era anche un altro bel divertimento a Baccanalia: era lo scivolone!

Appena fuori del centro abitato, lo scivolone era un groviglio di boccoli cedevoli come riccioli di capelli, morbidi, elastici ed ondeggianti a tal punto che anche un alito di vento era sufficiente a farlo muovere.

Così i più grandi si riunivano lì e facevano vere corse nel vuoto, quelli maggiormente spericolati si lanciavano contro le onde del mare in tempesta o contro il vento invernale e restavano ore ed ore a dondolare nel vuoto e ad andare su e giù, attaccati allo scivolone.

L’ora più bella a Baccanalia era, comunque, quella del tramonto: da ogni parte, il sole basso illuminava l’insieme di sfere.

La luce entrava e faceva sfavillare le case fatte di lucida polpa e di zuccherati sughi: tutto assumeva il colore dell’oro, tutto diventava trasparente come una lampadina accesa ed ogni cosa dentro era visibile fuori, proprio come i sogni prima del risveglio, poi, a mano a mano, la luce del sole si spegneva a mare e come piccole lucine di un presepe, Baccanalia si accendeva; e gli occhi di chi l’osservava si perdevano in un susseguirsi di mille globi luminosi sorretti da ponti incredibili tra cielo e mare.

Per tutti quelli che sono stati almeno una volta a Baccanalia, ciò che resta del ricordo è il leggero senso di stordimento e di felicità malinconica.

lunedì 10 settembre 2007

WEEKEND NEL CILENTO…CON DELITTO!



Il tragico evento spettacolare che l’Italia stava aspettando: il delitto nel ventre del Cilento

L’Associazione Culturale “Arte e Parte” è lieta di organizzare, in collaborazione con il Club “Dragut” e con il B&B “Antico Convento”, un drammatico weekend di mistero da trascorrere nell'antico borgo di Rocca Cilento a Lustra (SA), nel Parco Nazionale del Cilento al quale potrete partecipare ad ottobre.

Il vostro istinto vi trascinerà a trascorrere un weekend nel prestigioso B&B “Antico Convento” nello scenario medievale di Rocca Cilento (SA), ma, stranamente, non tutto è tranquillo come sembrava.
Nel borgo, infatti, in un’antica e nobile dimora disabitata, si nascondono gli agghiaccianti indizi di un misterioso omicidio inspiegabile e l’assassino sarà…uno di voi!

Voi sarete i veri protagonisti di un intricato mistero da risolvere in una serata musicale durante una cena cilentana a lume di candela: voi investigherete o sarete i presunti assassini e sospetterete ed interrogherete o sarete interrogati e sospettati. Nell'affascinante cornice di un antico insediamento fortificato, lontani dal mondo, nella malia di un borgo dimenticato, vivrete una straordinaria avventura in prima persona, mettendo alla prova le vostre doti investigative o la vostra bravura recitativa.

Sarete abbastanza bravi?

Quello che possiamo promettervi, con assoluta certezza, è che vi divertirete fino a… morire!


WEEKEND CON DELITTO 6 e 7 OTTOBRE 2007:
o Spettacolo interattivo con attori del Teatro “Arte e Parte”; sceneggiatura originale di Milena Esposito e musiche al pianoforte di Gian Luca Nigro
o Aperitivo di benvenuto, cena, colazione, pranzo cilentano tipico
o Pernottamento in camera doppia per una notte.
Programma dettagliato:
Sabato:
• Arrivo al borgo di Rocca Cilento tra le 18: 00 e le 19:30
• Sistemazione presso il prestigioso B&B “Antico Convento”
• Aperitivo di benvenuto
• Inizio spettacolo presso l’antica dimora disabitata ore 20: 30
• Cena con menù tipico cilentano
• Pernottamento in camera doppia presso il prestigioso B&B “Antico Convento”
Domenica:
• Colazione all’”Antico Convento” ore 9:30 circa
• Visita del borgo di Rocca Cilento
• Epilogo e premiazione
• Pranzo presso la tipica trattoria cilentana “Dragut”
• Saluto dell’Associazione
• Partenza per le ore 16:00 circa
COSTO DELL'INTERO PACCHETTO PER IL WEEKEND :
95.00 euro a persona
180.00 euro a coppia (90.00 € a pers.)
340.00 euro per gruppi di quattro persone (85.00 € a pers.)
480.00 euro per gruppi di sei persone (80.00 € a pers.)
600.00 euro per gruppi di otto persone (75.00 € a pers.)
700.00 euro per gruppi di dieci persone (70.00 € a pers.)
780.00 euro per gruppi di dodici persone (65.00 € a pers.)
900.00 euro per gruppi di quindici persone (60.00 € a pers.)

• La partecipazione è consentita ai soci con tessera “Arte e Parte”: la tessera può essere acquistata direttamente al momento della prenotazione al costo di 5 euro ed ha validità annuale dall’acquisto.
• Possono partecipare solo i soci con più di 15 anni d’età.

Il numero massimo di partecipati è molto limitato e vi consigliamo di prenotare quanto prima.
L’evento è a numero chiuso; raggiunto il quale, non si potranno accettare successive prenotazioni.
- Informazioni su come arrivare a Rocca Cilento (SA):
- Raggiungere Rocca Cilento è molto semplice: chi opterà per Treno, Aereo o Nave, arriverà a Napoli.
- In auto:
- dal Nord percorrere l'autostrada A3 Salerno - Reggio Calabria, uscita Battipaglia, proseguire per la SS18 e seguire le indicazione per Agropoli-Vallo della Lucania, uscita Prignano Cilento e seguire le indicazioni per Rutino giunti al bivio per Rutino svoltare a destra e seguire le indicazioni per Rocca Cilento.
- dal Sud uscita Eboli seguire le indicazioni per Paestum - Capaccio giunti sulla variante SS18 e seguire le indicazioni di sopra.
- In treno:
Linea Napoli - Reggio Calabria fermata stazione di Agropoli.

N. B.: chi giunge in treno presso la stazione ferroviaria di Agropoli (SA) potrà prenotare gratuitamente il servizio navetta.
Per informazioni scrivete a arteparte@hotmail.it
B&B l’Antico Convento http://www.anticoconvento.it/index.htm
Per prenotare è necessario chiamare il numero 0974823315 dalle ore 15,30 alle ore 17,00 o al 3349903646 e successivamente versare un acconto del 50% presso il conto che vi verrà indicato.
Il saldo dell'importo sarà versato in contanti all'arrivo.
Eseguito il versamento, mandate un’e-mail all'indirizzo arteparte@hotmail.it con oggetto "Weekend con Delitto 6-7 Ottobre " indicando il nome di tutti i partecipanti e possibilmente anche i loro indirizzi e-mail, in modo da poter essere iscritti alla mailing-list dell'evento e ricevere tutte le informazioni aggiornate ed i primi indizi.

sabato 1 settembre 2007

Ronzare


Ronzare


È che ho voglia di dirtelo senza starci a pensare e di mettere giù le cose. No, anzi, di vomitarle, di farmele uscire dal naso. È che so per certo che non servirà, ma serve a me stavolta, a me.

Non voglio pensare alle parole: non ora, ora devo sfogare questa necessità.

È che so di non capire, di non essere all’altezza, è che so…di non sapere. So che non mi fido.

Ecco! Ma che credi?

Non mi posso fidare più. La tua scelta ormai è fatta: tu ti perdi avanti ed io ti seguo, sì, ma con lo sguardo del cieco, col passo dello zoppo.

Non mi fido e te lo grido: EHI! NON MI FIDO PIÙ DI ME…di me…

Mi soffoco in gola. Non vuole uscire. Rantolo.
Sussurro.
Non mi fido dei miei sensi, di questi sentimenti, del fango che infanga e delle nuvole che hai soffiato come fumo sul mio viso, negli occhi, per annebbiare ogni mio respiro e…e brucia…non strillo, no, ansimo e non mi fermo.
Tu mi scacci come si fa con le mosche…e hai ragione tu: continuo a ronzare senza sapere dove andare, senza una meta, lì…là… e che brusio faccio, ma poi, che faccio?

Che ho fatto…che ti ho fatto?

Che sento, lo senti, eh, lo senti? Mai le mie parole sono state più azzurre.

Inutile, inutile è seguirti, inutile raggiungerti…inutile cercare le parole e dirsele e spingerle con tutta la mia bocca, con la lingua e allungare le mani e le braccia e cercarti in un respiro e nel suono che riecheggia ogni volta che sorridi. Amaro.

Vado giù. Cado strattonata. Spinta a terra.
Mi alzo o almeno ci provo.
Brancolo tramortita.

…ho riposto il mio vestito senza che tu lo vedessi quando mi era indosso…senza guardarmi indietro e senza poter guardare avanti; sono io qui dentro, nel buio dell’armadio chiuso, accanto al vestito
smesso…smesso…smesso…

venerdì 31 agosto 2007

Vento


Io adoro il vento caldo.
Lo scirocco, quando gioca con me.
Il vento caldo non si cura di star fermo e tocca.
E scopre e scompiglia ogni cosa.
Salto.
È selvaggio il mio salto…è selvaggio il tuo vento.

martedì 28 agosto 2007

Castellabate - Federico II vento di Soave tra suoni e voci mediterranei




Il posto è bellissimo e la serata è splendida. È una notte di luna piena: è fine agosto, il 27, siamo nel cuore del Cilento a Castellabate, nel cortile interno del Castello Medioevale.
Ad accoglierci c‘è una musica rilassante e torce per illuminare questa notte stellata. Notiamo con piacere che non c’è il palco, la scenografia consiste in un letto, due quinte blu e un tendaggio leggero, bianco, quasi trasparente che si muove al vento.
Siamo qui, tra le sedie messe a semicerchio per assistere allo spettacolo teatrale “Federico II vento di Soave” regia di Antonello Santarelli con la Compagnia Teatro Zeta e Manuele Morgese, che ha scritto anche il testo.
Tornano alla mente i versi del Paradiso di Dante:
« Quest'è la luce della gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò il terzo e l'ultima possanza. »
con il riferimento al fatto che Federico fu il terzo ed ultimo imperatore svevo.
Lo spettacolo si svolge nell’ambito della Manifestazione “Suoni & Voci Mediterranei”, che è giunta alla sua quarta edizione.
La visione è gratuita ed ha l’alto patrocinio del Ministero dei Beni Culturali settore Spettacolo.

Il padrone dello spettacolo, al nostro arrivo, è il vento caldo, che scompiglia i lunghi tendaggi bianchi e, per dispetto, spegne alcune torce. Questo rende tutto suggestivo. Il buio non c’è: è rischiarato dalle stelle, e dalla sfera perfetta di una luna bassa, che di là del perimetro del castello, biancheggia nel cielo, nascondendosi al nostro sguardo.
Al nostro arrivo, verso le 21: 30, ci sono poche persone; poi a mano a mano, un pubblico distinto e silenzioso si accomoda sul semicerchio di sedie.
All’inizio dello spettacolo, poco dopo le 22:00, il cortile è pieno: qualcuno resterà in piedi durante lo spettacolo.
Nella luce del plenilunio, prima che abbia inizio lo spettacolo, notiamo che in scena non ci sono microfoni ed anche questo ci piace.
Le luci, adesso spente, sono montate su due alti piedistalli ed il loro impatto in scena è discreto. A delimitare lo spazio scenico ci sono candelabri che il vento spegne.
Lo spettacolo ha inizio: una ragazza, illuminata da una luce bianca, c’invita a spegnere i cellulari e a rispettare il silenzio il più possibile, poiché gli attori non saranno amplificati.

Incensi, candele e abiti monacali s’aggirano in una scena semibuia. La qualità della musica è eccellente. I movimenti, resi poco chiari dalla scarsa illuminazione, sono molto affascinanti.
Lo spettacolo acquista il suo ritmo ed in scena si alternano i cinque attori: alcuni rivestono più ruoli, altri interpretano un solo personaggio.
Ci aspettavamo uno spettacolo storico ed assistiamo ad una storia d’amore di taglio piuttosto classico.
La trama dello spettacolo ci narra dell’amore contrastato tra Federico e Bianca Lancia.
Secondo una leggenda, che fu tramandata da padre Bonaventura da Lama e ripresa dallo storico Pantaleo, durante la gravidanza di Bianca, Federico la tenne rinchiusa in una torre del castello di Gioia del Colle, perché la credeva adultera. La Principessa non poté resistere all’umiliazione; vinta dal dolore, si tagliò i seni e li inviò all’imperatore su di un vassoio d’argento assieme al neonato. Federico la raggiunse e la trovò moribonda. La donna gli chiese allora di legittimare il figlio, Manfredi, e di sposarla e ciò avvenne in punto di morte.
L’uomo che avrebbe amato Bianca Lancia era Pier delle Vigne.
Una storia a tre: lui, lei, l’altro.
Forse Federico II, lo"Stupor Mundi", avrebbe meritato di più.
Lo spettacolo ci riempie di belle musiche, giochi semplici ed efficaci di luci, ben studiate, che creano splendide immagini, quasi quadri pittorici; voci dal vivo e belle registrazioni, eseguite magistralmente, ci regalano una bella serata. Un gran plauso va al service fonica-luci, la cui bravura è stata necessaria alla buona riuscita dello spettacolo. Gli abiti sono curati, alcune immagini sono rese spettrali dall’uso sapiente dei tendaggi, che diventano elemento dominante della scena. Il vento continua a giocare con i drappeggi, rendendo un gran servigio al successo dello spettacolo.
Ci aspettavamo il bel Morgese a dorso nudo e lo abbiamo avuto, come sempre, stavolta era ben illuminato e bagnato in una catinella per il bagno settimanale dell’imperatore, malcelato dal tendaggio, che il vento clemente ha sollevato.
Bravissimo l’attore che interpretava il giullare, del quale, purtroppo, al momento dei saluti, non è stato fatto il nome e che assieme agli altri non è stato presentato ad un pubblico attento e discreto.
Milena Esposito.

martedì 21 agosto 2007

Saturnia del pero


Saturnia di notte con ampio sbattito smuovi l’aria ed il fuoco della mia torcia tremula.
Sul petto ti apri e poi muori, dopo aver ripreso il mio pulsare, dopo averlo interrotto, dopo aver tolto spazio alla luna indecente.

giovedì 16 agosto 2007

Moleskine

Uno sbuffo di vapore arancione svolazza nel tramonto.
Due farfalle, avanti e indietro, si rincorrono, mantengono la stessa distanza: vanno via.

sabato 11 agosto 2007

vai 'e presse?


Era col sorgere di un nuovo orizzonte che tramontava la salda idea di un mondo che stava fermo; senza girare come una palla, perché poi, se girano, le palle, sono guai grossi. Era stato Dante a metterla sul piedistallo e tutti potevano, da sotto, ammirarla molto meglio.
Questo Stilnovo, poi col tempo fu in voga pure con le cubiste nelle discoteche, vere discariche delle orecchie trombate del ventesimo secolo, vera manna per gli otorini, come i pantaloni a vita bassa per gli urologi. Ma ciò che risolse le sorti dei dermatologi furono, al di sopra d’ogni dubbio, i tatuaggi ed i piercing. Se facciamo un passo indietro e svoltiamo a destra, per poi immetterci sulla statale, sicuramente ci accorgiamo che la terra è rotonda, senza accanirci con l’ANAS, che cerca di rendere un servizio che ci va a quel servizio e brucia un po’. Da lì, quando non c’è traffico, si può fare anche la considerazione “eppur si muove”, sempre che la macchina non ci lasci per strada. E che a piedi il mondo ci sembra diverso.
E che alla fine del mondo ci fosse un nuovo continente non è una novità, ma che Bramante, pur bramando, non vi era mai stato, forse fa la differenza, come fa capire chi è veramente sulla rotta delle Indie, anche perché chi l’ha rotta? Se la rotta è rotta, è inutile prendersela col vicino di casa, che magari ha i suoi problemi con Lutero, che inventava un Nuovo Testamento e in verità continuava a protestare mandandolo pure all’inferno. Ma sia un po’ indulgente con le indulgenze! Che poi mi sembrano un pretesto questi protesti.
C’è chi ha i prestiti e chi si fa prestare la moglie dell’amico. Che poi finiamola con questa storia dell’amicizia! Che non mi si venga a dire che c’è tanta differenza tra la rotta e L’utero: è solo una questione di affrontare i problemi in profondità. Che mi sento un po’ pressato ultimamente. Sarà forse stato Gutenberg con le presse a Norimberga, ma avere tutti quei caratteri e nemmeno un caratteriale, con tutto quello che succede, ci vuole carattere per imprimere un segno indelebile. Indelebile poi sulla carta. Eh, si fa presto a dire sulla carta, bisogna vedere in pratica. In pratica il periodo che sto attraversando, mi porta a guardare con sospetto un pezzo di formaggio e a chiedermi con insistenza non sei né carne né pesce, ma allora che sei?
Che il periodo che sto attraversando a volte a piedi, a volte in macchina o in treno, non mi porta da nessuna parte. Parte pure lui, quel tale, Cristo, mi pare si chiami Cristo, di cognome Piccione, no, Palumbo, ma no…l’ho sulla punta delle dita…ah sì, Cornacchia, Cristo Cornacchia. Quello che avrebbe dovuto dare il nome all’America, ma che invece credeva di andare in India. Per fare il giro del mondo, che se è rotondo appunto ciack, si gira! Una storia dell’altro mondo. Se l’America si fosse chiamata Cornacchiola e se tutti gli Scornacchiati avessero invaso il mondo e rotto le palle all’universo intero, sarebbe stata tutta un’altra storia.
Una storia diversa. Che poi, chi l’ha inventato il cellulare?
Conosciamo meglio quello che inventò il telefono, che pure è storia vecchia. La nuova storia ancora non fa storia, né la leggi sui libri di testo, che testo non hanno fatto mai. Non fai testo testo!
Leggi, studia, ma ci pensi? A stare senza presse? E che mi sentirei molto meno pressato di come mi sento. Una vita senza presse.

mercoledì 8 agosto 2007

Color borotalco


Quando le donne, le sole mamme, vanno a dormire, devono avere il coraggio di sbarrare le persiane sui sogni dei loro bimbi. Intanto, le nuvole spumose sospinte dalla brezza, che di notte spira verso la terra dal mare, passano in cielo, silenziose, una diversa dall'altra, a mille a mille. La luna le fa brillare dall'alto, diventano latte e si mutano in sogni. Fantasmi vagano nel cielo come il bucato abbandonato sulla fune, dimenticato nella notte. Sono fantasmi buoni: rasserenano. I bimbi, tra cuscini e coperte, dormono nel nido preparato dalla mamma o da chi li ama e con occhi chiusi possono immaginare il muto passeggio.
Per ogni nube ci sono voluti mille milioni di secoli di lavorazione e mai il tempo è stato speso meglio! Una di color borotalco appare al piccolo Giulio, che non conosco e che dorme. Una ha la forma di ciambella e profuma di zucchero filato ed è venuta per lui, il bimbo più dolce del paese, mio figlio. Ne vedo una a forma di piuma slanciata, coricata come una sirena accanto al mare, brilla e si spazzola la chioma lunga e rossa, bellissima; la vede, in sogno, una bimba che oggi ha pianto. Viene la nuvola traforata come un merletto per il piccolo Giuseppe, la nuvola azzurra per Martina, la nuvola piccola per Stefania e una di bolle di sapone per il bambino del fornaio; tutti dormono. Però non vedo quelle per i grandi, per le mamme e per i papà e per la maestra ed il dottore, per lo zio e per il salumiere e per tutti quelli che sì son dimenticati di sognare.
Stanno con gli occhi stretti, sdraiati, nelle pose strambe e sconce, tappati nella puzza delle stanze, disdegnano le meraviglie. Nella testa hanno i pensieri dei problemi e dei soldi e delle tasse e della politica e della cattiveria. Pure le mamme ed i papà, poveri cari…A volte però, una nuvola argento e oro, scappa dal sogno dei piccoli e vaga illuminando le stanze e profumando l’aria di zucchero, cannella e borotalco e caramello e cipria ed anche i grandi al mattino hanno memoria di una briciola di benedetta infanzia.